O per meglio dire, sulla vita dopo la vita. Per essere più precisi: sulla possibilità della prosecuzione dell’esistenza dopo il capolinea del vivere - per come noi lo intendiamo.
Lo so che arriva il caldo. Che l’estate è alle porte. Che dovrei scrivere di ormoni che si risvegliano, di coprifuochi smussati e di costumi.
Ma io, da meno di un anno a questa parte, un paio di domandine in più sulla morte ho iniziato a farmele. Con serenità. Senza scomodare nessun dio e nessuna religione. Che se solo continuassi a credere in un dio o in una qualsiasi forma di religione sarei profondamente incazzata:
a- col dio in questione, il quale, a questo punto, mi risulterebbe fortemente indigesto e alla stregua di un farabutto;
b- con la religione a cui fare riferimento che, come proseguo del dio da cui assume la sostanza, ad altro non potrebbe somigliare se non ad una istituzione divina inneggiante alle atrocità e alle ingiustizie ma con la regola inviolabile di tenere botta, in nome di una ipotetica ricompensa che prima o poi arriverà.
Ecco, io ho deciso di tenere botta. Ma privandomi del piacere di chiamare in causa terzi incomodi.
Amen.
Ma che fine facciamo quando moriamo? Dove sono i miliardi di morti che hanno lasciato questo mondo per l’altro? Come la gestiscono nell’aldilà la sovrappopolazione?
A me, ovviamente, di dove pascoli in pace, ad esempio, l’anima di Napoleone Bonaparte non è che me ne freghi nulla. Per dirne uno. Però mi chiedo dove siano mia madre e mia nonna scomparse da poco. Mi domando perché non si facciano sentire in qualche modo, perché non mi inviino un qualsiasi segnale decodificabile.
In effetti, pensateci: se i morti potessero intervenire nella vita di chi rimane, si scatenerebbe un grande putiferio: morti ammazzati che si vendicherebbero sugli assassini rimasti, genitori che aiuterebbero concretamente i figli, figli che supporterebbero concretamente i genitori, dritte da nonni e parenti su come svoltare… Insomma, male male non sarebbe.
Tuttavia, è indubbio che, una volta morti, dei morti non rimane traccia se non nei nostri cuori e nel ricordo amorevole che riusciamo a perpetrare di loro nel tempo.
Proprio ieri, parlando con tre cari amici, dicevo che spesso mi capita di fantasticare su quanto sarebbe divertente assistere allo scazzottamento invisibile, che ne so, di mia madre che mette al tappeto mio marito quando mi fa andare fuori dai gangheri e lui che, stupitissimo, non si capacita di cosa sia accaduto.
La verità è che spesso mi capita di ripensare alle parole di una donna che ho conosciuto durante gli ultimi giorni di mia madre proprio all’interno della struttura per malati terminali dove lei era ricoverata. Di quella donna non ricordo il nome, ma rammento la sua espressione serena e quello che mi disse pur trovandosi nella mia stessa situazione:
«Vedi, tutti noi sprigioniamo un circuito d’energia. Quando il nostro corpo si spegne, l’anima continua a mandare vibrazioni. Inizialmente un po’ più forti, poi sempre meno percepibili. Ma l’energia dell’anima continua a circolare in un processo infinito che ci accompagna per tutta la vita e al quale prima o poi ci ricongiungeremo».
Non le diedi molta retta all’epoca, ma di recente mi è capitato di ripensare alla domenica di novembre in cui tornai a casa dopo i funerali di mamma.
Mi ero portata appresso le melanzane affettate, fritte e surgelate che all’inizio di ogni autunno lei mi preparava con amore affinché, in pieno inverno, io potessi cucinare a Roma la parmigiana al forno. Lo aveva fatto anche lo scorso settembre; avevo trovato nel congelatore le bustine porzionate ed etichettate con cura.
Quella domenica ne avevo tirato fuori dalla borsa frigo una busta e le avevo buttate di mala voglia in un approssimativo sugo, giusto perché il frigo era vuoto da settimane. Le altre le avevo conservate.
Ero molto incavolata. «Certo, mamma, che te le potevi risparmiare le melanzane se poi te ne dovevi andare così… Tanto la parmigiana non ce la faccio. Anzi, non ci faccio più neppure il sugo, non le voglio le tue melanzane se tu non ci sei…».
E, all’improvviso, mentre pronunciavo quelle ultime parole, il coperchio in vetro della pentola si è frantumato. Non è esploso mandando in giro i pezzi, si è solo letteralmente frantumato rimanendo comunque integro; tanto che, quando ho fatto per prenderlo, è venuta via solo la parte in plastica che reggeva il manico.
Chi mi avrebbe creduto?
L'ho fotografato.
Ora, io non so se quello del coperchio sia stato un caso fortuito. Se pure gli oggetti di casa mia erano stressati e stremati dal periodo. Certo è che io utilizzo da circa un ventennio una batteria di pentole con i coperchi in vetro e quella roba lì non è mai successa; né prima, né dopo la fantomatica domenica.
Certo è anche il fatto che, con le melanzane fritte di mia madre, ci abbia preparato in seguito solo e soltanto parmigiane al forno.
Certo è pure che mi piacerebbe tantissimo che mamma mi comunicasse tre o quattro numeri buoni da giocare al lotto, che spartisse come Mosè le acque sul raccordo quando ci sono io a percorrerlo, che volasse a mo’ di scudo protettivo ovunque camminano i miei figli, che prendesse a bruciapelo a sberle – SCIAFF SCIAFF - mio marito o chiunque altro mi faccia incazzare e senza che io mi scomodi a spiegare il perché, ma la mia teoria sulla morte è che magari quella donna avesse ragione: l’energia delle anime non smette di circolare, in un processo infinito che ci accompagna per tutta la vita e al quale prima o poi ci ricongiungeremo.
Spero.
Ci voglio credere.
E mi piace di più di qualsiasi paradiso.