mercoledì 28 aprile 2021

100%

La primavera quest’anno ha bucato l’appuntamento. E ha fatto bene, tanto, come la fa la fa, non siamo mai contenti. 

Hafattounfreddodellamadonna

Ad aprile. 

Oggi piove. Non sai neppure come vestirli sti ragazzini. Felpa sì, felpa no. L’importante è che non si ammalino, che poi alla prima smocciolata ti chiamano da scuola e ti fanno sentire come se avessi portato in giro un terrorista dell’ISIS pronto a farsi saltare in aria.

Passerà. A Roma ci sveglieremo una mattina e sfiateremo sotto al sole di mezzogiorno imprecando come orsi polari nel deserto. L’estate quando arriva arriva: sticazzi se il giorno prima faceva 7 gradi.

Intanto, l’esaurimento galoppa. Siamo tutti esauriti, chi più, chi meno. L’anno scorso almeno avevamo cantato e ballato sui balconi; quest’anno i balconi li frantumeremmo a mazzate. Chi rompe paga - con soddisfazione, se non altro - e i cocci tutti in testa a quella di sotto che mentre eravamo in DAD pretendeva che non si facesse un fiato PERCHE’-LEI-LA-MATTINA-FA-YOGA. 
Beata! che ha ancora voglia di yoghizzarsi, che si gode la pensione maturata in altri tempi e che ha conservato la forza di rompere i maroni al prossimo gravato dalla sottovalutata disgrazia di possedere una prole in età scolastica ai tempi del virus.

La crostata con la nutella che ti portai a Natale doveva andarti di traverso, st…oica di una vicina!

Che siamo esauriti l’ho seriamente capito negli ultimi giorni. A scuola dei miei figli pare ci sia uno psicolabile che si diverte a disseminare viti e chiodi arrugginiti nei pasti somministrati ai bambini. S’è alzato un polverone senza precedenti. E a ragion veduta. I carabinieri sono andati nei locali della ditta che gestisce la mensa e li hanno rivoltati come calzini: non s’è trovato né una causa, né un responsabile. In attesa di altre indagini, la mensa rimane aperta. Tuttavia, il dirigente ha dato la possibilità alle famiglie di scegliere il pasto domestico: ma, attenzione!, attenzione!, le mamme della scuola dell’infanzia vi hanno aderito in minima percentuale.

Siamo proprio esauriti: se preferiamo far rischiare la salute ai nostri figli piuttosto che organizzare un pasto da casa o ribellarci ad uno stato di cose talmente approssimativo, la pandemia c’ha mandato in confusione il cervello.

Che siamo esauriti me l’ha confermato anche la mia amica T. 

T. non la incontravo da mesi. Ieri l’ho beccata al supermercato. L’ho vista aggirarsi in mezzo agli scaffali dei cereali e sbiascicare sotto la mascherina perché s’erano fatti fuori tutti i Choco Krave. Non ero sicura fosse lei: per meglio dire, le movenze, quella maniera inconfondibile di piegare il ginocchio quando si innervosisce, i riflessi biondo cenere dei capelli, con - in verità - almeno quattro dita di ricrescita rispetto al solito, e l’accento a metà tra il ciociaro e il burino spinto erano i suoi, ma qualcosa nel suo avanzare a scatti me la rendeva estranea.

«T.! Porca miseria, da quanto tempo! Come va, come state?»

«Ah, bella! Penzavo te fossi morta…»

Ha sorriso con gli occhi vispi e ha toccato il ferro dello scaffale più vicino: sia mai che lo scongiuro non arrivasse in tempo a salvarmi da una probabile dipartita.

«Eh, come stamo,» ha proseguito «stamo fuori con l’accuso, cara mia, che te lo dico a fare… Sempre chiusi a lavorà da casa, come le pecore dentro a’na gabbia, che se fossimo pecore ce farebbero senz’altro andare ar pascolo… Che poi li vedi? Tutti a piagne miseria, tutti in cassa integrazione, e poi se magnano i cereali più cari…»

Ho sghignazzato. Come te le racconta T., nessuno al mondo.

Solo che, mentre parlava, scattava. Piccoli e ripetuti scatti principalmente indirizzati alla metà inferiore del corpo: a destra, a sinistra, avanti e indietro.

Mi è venuto naturale chiederglielo: «T., ma che c’hai?»

«E che c’ho, che c’ho…» ha detto ballonzolando da una parte all’altra. «C’ho che mi scappa. E nessuno me la fa fare! Sono andata al bar di fronte, al bar di dietro, ai bagni pubblici del centro commerciale… Niente, al gabinetto non ci si può più andare: indipendentemente dall’arcobaleno di turno. Ai tempi der Covid se soffri de vescica lenta te tocca attrezzatte…»

Le ho lanciato un’occhiata carica d’affetto. L’unico gesto amichevole che possiamo concederci di questi tempi (io a strofinare i gomiti non ci penso proprio!).

« Che ditte... me ne vado, che io qua non la tengo più...E ricorda, cara mia, imprimitelo bene: siamo tutti esauriti. Tutti, eh! Tutti quanti. Me credi?»

«Certo che ti credo, T. Perché non dovrei?»

«Ma tutti, tutti tutti, al 100%, tutti esauriti!»

«Assolutamente!»

«Tutti, tutti esauriti! Al 100%»

E se n'è andata.



lunedì 19 aprile 2021

Quarantadue

Quarantadue. Oggi.

42.

E non è tanto il discorso dell’età. Se me li sento, questi 42 anni, oppure no; se li ho vissuti tutti quanti per bene o se ho più rimpianti che soddisfazioni.

Oggi compio 42 anni. E sono una ragazza felice.

Non sono ricca, non sono famosa, non ho sposato Brad Pitt, non ho fatto il giro del mondo in 80 giorni, non ho messo al mondo due bambini prodigio. Ma sono felice. Addirittura, mi piaccio. Mi piace la me che mi saluta dallo specchio e che ha sempre provato ad abbozzare a un sorriso. Persino quando di sorridere non c’era una beneamata minchia.

Il punto è che oggi compio 42 anni e, per la prima volta, mi sento scardinata dai ricordi.

Sono cresciuta in una famiglia numerosa. Io e mia madre siamo fuggite da un padre padrone e siamo andate ad installarci nell’unico nido in cui si covava amore: la casa dei nonni. Ho avuto per compagni di giochi mani accartocciate dalle artrosi e occhi annacquati da una vita già vissuta: un nugolo di anziani che mi ha fatto dono dell’ultima manciata di respiri e della saggezza di apprezzare le cose per come accadono. Perché quando hai vissuto tanto e discretamente, la vita a ritroso ti appare in tutta la sua lineare semplicità e non puoi fare altro se non tifare per chi verrà dopo, ammaccando le paure e infondendo la forza necessaria a sfidare il destino.

"La vita non è quello che sembra, picciridda. E’ molto di più. Il dolore passa, del dolore ci si dimentica. Quello che rimane è il coraggio di compiere le cose; tutte quante le cose che ti suggerisce il cuore”.

10 anziani appartenenti a differenti generazioni,

+ 3 adulti

+ io piccina:

= 14 persone in un’unica casa.

E’ stato il numero esagerato a fregarmi.

Per tanto tempo non ho compreso dove stava l’inghippo. Per diversi anni non mi sono figurata il vuoto che sarebbe sopraggiunto.

Fino a qualche mese fa, non avrei mai neppure scommesso sull’eco del silenzio che, oggi, mi rimbomba nello sbigottimento dello sguardo.

Il giorno del mio compleanno, facevano a gara per raccontare.

Mia madre aveva saputo della mia esistenza la sera del 16 ottobre del 1978: nello stesso istante in cui la tv aveva trasmesso la fumata bianca ed era stato annunciato il nuovo papa, lei aveva avuto un mancamento.

Ci si era prodigati in conti approssimativi. Non era possibile che mia mamma fosse incinta: nelle ultime settimane aveva subito un aborto a causa delle percosse del marito; da quel momento era stata a riposo e le mestruazioni non le erano più tornate.

“Magari erano due e uno si è salvato,” aveva detto la vecchia levatrice. La nonna e la prozia avevano annuito serie: ero il gemello cazzuto, quello che aveva resistito aggrappato come una cozza allo scoglio. D’altronde, mi ero emozionata all’annuncio di Wojtyła, mica robetta.

Nessuno, però, era stato in grado di stabilire quando sarei dovuta nascere. Non prima della fine di maggio, aveva decretato il dottore dell’ospedale. Quando vorrà dio, avevano sentenziato i miei anziani.

E dio si era segnato sull’agenda che il 19 aprile poteva andare bene, ma, preso come sempre da affari più urgenti, si era dimenticato di farmi mettere in posizione.

Così, la sera in cui mia mamma era stata assalita dalle contrazioni e mio padre si era dileguato perché quelle cose da femmina lo infastidivano, il timido dottorino alle prime armi aveva parlato direttamente con la nonna che lo aveva guardato carica di compassione.

“Senta signora, qui la situazione è complicata. Il bambino punta i piedi invece che la testa e per il Cesario non siamo attrezzati”.

Povero figlio, aveva pensato nonna Montagna, mettere in mano a un maschio, peraltro tanto giovane, le faccende delle partorienti. Lo diceva lei che a lasciar fare agli uomini si perdeva tempo e fatica. Si era limitata a rispondere che dovevano infilare una mano e girare la creatura e che lei avrebbe dovuto assistere al parto.

Il giovane medico si era grattato la testa e aveva acconsentito.

La nonna lo giurava e lo sacramentava: la prima cosa che di me aveva visto era stato un piede sghembo e tumefatto che veniva fuori dalla vagina di mia madre. Un increscioso ricordo, a ben vedere, ma, da piccola, al mio compleanno, la nonna si prendeva quello stesso piede e me lo baciava mentre raccontava.

“È così che sei sbucata alla luce, prima con i piedi e dopo con la testa. Eri viola, strapazzata e con gli occhi neri e spalancati come quelli di una trota. Ma eri bella e grossa, e come lo guardavi al dottore, come a uno a cui si deve la pellaccia, tanto che lui stesso ti prese e disse: “Mi hai fatto penare, ma porterai fortuna a me e alla tua famiglia…”.

Quello stesso dottore l’ho rivisto anni dopo, da adulta, in un ospedale a Messina. Ero alla mia prima gravidanza e avevo trangugiato un chilo di focaccia messinese con tanta scarola e una dose doppia di pepe nero. Ero finita al pronto soccorso di ginecologia a causa delle fitte insopportabili alla pancia. A nulla erano valsi i tentativi di spiegare che fosse più un’indigestione che una minaccia d’aborto: mi avevano ricoverato per qualche giorno e, in quel frangente, avevo letto il nome sul cartellino del primario ed ero trasalita. 
Era lui lo stesso dottor C.F. che alla fine degli anni ’70 si stava specializzando in un piccolo paese della profonda Calabria e il cui nome era risuonato di bocca in bocca ai miei parenti oramai decimati? 
Era lui. 
Niente di meno rammentava, come in un sogno. Perché quella in cui io ero nata era stata la prima settimana della sua carriera e l’inizio non era sembrato dei migliori.

A pensarci adesso, mi sento una miracolata. Per quell’incontro fortuito che ha chiuso il cerchio di una leggenda oramai consolidata.

A pensarci adesso, mi sento fortunata. Per quel coro di voci miste che mi sussurra all'orecchio dell’anima: Te la ricordi quella giornata? Ah, quante volte te l’abbiamo raccontata.



giovedì 15 aprile 2021

Non sarebbe giustificazione per non farlo più

Dicono che è vero che quando si muore poi non ci si vede più, dicono che è vero che ogni grande amore naufraga la sera davanti alla tv, dicono che è vero che ad ogni speranza corrisponde la stessa quantità di delusione, dicono che è vero, sì, ma anche fosse vero, non sarebbe giustificazione, per non farlo più, per non farlo più, ora.

Dicono che è vero che quando si nasce sta già tutto scritto dentro ad uno schema, dicono che è vero che c'è solo un modo per risolvere un problema, dicono che è vero che ad ogni entusiasmo corrisponde la stessa quantità di frustrazione, dicono che è vero, sì, ma anche fosse vero, non sarebbe giustificazione per non farlo più, per non farlo più, ora.

Non c'è montagna più alta di quella che non scalerò, non c'è scommessa più persa di quella che non giocherò, ora.

Dicono che è vero che ogni sognatore diventerà cinico invecchiando, dicono che è vero che noi siamo fermi ed è il panorama che si sta muovendo, dicono che è vero che per ogni slancio tornerà indietro una mortificazione, dicono che è vero, sì ma anche fosse vero, non sarebbe giustificazione, per non farlo più, per non farlo più, ora.

Non c'è montagna più alta di quella che non scalerò, non c'è scommessa più persa di quella che non giocherò, ora.

#unacanzonepercaso

domenica 11 aprile 2021

COMUNIKALANDIA - Dimmi come comunichi e ti dirò...

L'altro giorno leggevo un articolo sul cavilloso argomento del SAPER COMUNICARE BENE. Un buon articolo, uno dei pochi - a doppia firma: Migliorini e Degli Espositi - che ha catturato la mia attenzione. 

Se ne dicono tante sulla comunicazione, si conducono studi, si organizzano corsi, si tengono sedute di gruppo. La verità è che Comunicare con gli altri è fondamentale, e non riguarda solo la creazione di buoni rapporti interpersonali, bensì l'autoaffermazione e l'autodefinizione di noi stessi.

Tutti noi Comunichiamo: a parole, con i gesti, con la postura del corpo, con il tono della voce.

Da queste parti comunichiamo solo per iscritto: e per essere compresi e creare sinergie è necessario essere dei comunicatori se non altro decenti. E non soffrire di particolari turbe.

Pertanto, se vi siete accorti di accusare manie di persecuzione, se guardate sempre a ciò che scrivono gli altri per trovarvi traccia di un riferimento alla vostra persona, se vi sentite puntualmente toccati e state lì sulla difensiva a ribattere per le rime o a smontare un dato argomento senza riuscire a cedere e a godere degli uccellini primaverili che cinguettano di gioia, se l'impulso è sempre quello dell'insofferenza, della polemica, della puntualizzazione,  prima di continuare nella lettura di questo post, rivolgetevi a uno specialista del campo: nel vostro caso non si tratta di comunicazione, bensì di un disequilibrio della personalità che inficerà probabilmente anche il vostro vivere quotidiano. Non inficiate anche la vita altrui: curatevi

Per tutti gli altri, prima di passare oltre, FATE IL TEST CHE LASCERO' ALLA FINE: sarà divertente scoprire insieme a quale genere di comunicatori apparteniamo.

Secondo la rivista in questione, esistono 3 tipi di comunicatori:
  • Il Comunicatore assertivo
  • Il Comunicatore aggressivo
  • Il comunicatore passivo

E che lo si voglia o no, quale che sia la forma di comunicazione a cui ricorriamo nella vita di tutti i giorni, per forza di cosa finiremo per trasportarla nel mondo virtuale da noi frequentato. Soprattutto nella stesura e nella gestione di un blog.

Ma andiamo ad osservare da vicino i 3 profili, ricordando sempre che la forma di Comunicazione a cui attingiamo non è intercambiabile a nostro piacimento, ma incarna, piuttosto, la nostra personalità che si è costruita in base alla naturale indole, all'intelligenza ed alle esperienze di vita.

  • Il comunicatore assertivo

E' colui che è sicuro di sé e aperto al confronto. Una persona che riconosce il proprio valore, le proprie idee, i propri punti di vista ma non teme di metterli in discussione. Si tratta soprattutto di un comunicatore chiaro, trasparente, con se stesso e con il prossimo e che riconosce tanto il proprio valore, quanto il valore costruttivo e positivo degli altri (anche quando apparentemente questi non lo possiedono); perché riconosce il diritto proprio e degli altri ad essere sé stessi e a venire accettati. 
Il comportamento assertivo stimola l’apertura, la conoscenza reciproca e promuove un atteggiamento di collaborazione. Inoltre, il fatto di aver dato voce ai propri punta di vista e stati d’animo, rafforza l’autostima e definisce il senso delle proprie capacità.

 

"Assertività per vivere meglio"- di S.Migliorini e L. Degli Espositi


  • Il comunicatore aggressivo

E' un comunicatore dalla personalità assolutamente debole che non tiene  in considerazione il punto di vista altrui e che, apparentemente, può creare l’illusione di avere davanti un leader. Un finto leader destinato, tuttavia, a soccombere. 
Le conseguenze di una comunicazione aggressiva, a lungo termine, sono la sfiducia, la scarsa stima degli altri e un lento, ma progressivo, isolamento sociale. Con la triste conseguenza dell’aumento dell’insoddisfazione nei rapporti interpersonali e l’accentuarsi dell’aggressività stessa.

 

"Assertività per vivere meglio"- di S.Migliorini e L. Degli Espositi



  • Il comunicatore passivo

E' la tipologia di comunicatori che trova difficoltà ad esprimere il proprio vero pensiero e le emozioni sperimentate. Il passivo tende a camuffarsi e a modellarsi sul pensiero degli altri per il puro quieto vivere. La tensione, l’ansia e il senso di colpa sono legati al giudizio altrui e alla paura di contraddire il prossimo. 
Questo comunicatore tende a dare precedenza ai diritti degli altri, sentendosi spesso intimorito e oppresso; ha una scarsa stima di sé e si percepisce come impotente. E' una persona destinata ad annullarsi e a non sentirsi mai il protagonista della propria vita a favore di pochi inutili effetti benefici immediati che possono essere l’eliminazione del senso di colpa e l’allentarsi della tensione nel confronto con il prossimo.

 

"Assertività per vivere meglio"- di S.Migliorini e L. Degli Espositi


E' di facile intuizione che riconoscersi in uno dei profili definisce anche i comunicatori che siamo o che vorremmo essere. Esistono numerosi meccanismi per migliorare la propria attitudine alla comunicazione: tanto nella quotidianità quanto nel nostro approcciarci da meri internauti in un dato spazio.

Ho deciso di approfondire.

Intanto, però, vi lascio il test che i due autori propongono alla fine dell'articolo per aiutarci ad individuare la categoria d'appartenenza. 

Che genere di comunicatori siete? Fate il test! Non si vince niente ma possiamo parlarne.

"Assertività per vivere meglio"- di S.Migliorini e L. Degli Espositi







venerdì 2 aprile 2021

Prima Vera

La Pasqua era impastare il pane all’alba e infornarlo nel forno di mattoni rossi. Quel pane che cuoceva nel tempo scandito dall’orologio della chiesa; il grosso orologio che dindannava insieme al tempo ad ogni quarto d’ora. Era quella la Pasqua, prima che fosse Pasqua, prima che arrivasse qualsiasi morte e qualsiasi resurrezione. Era la Pasqua del pane caldo appena sfornato e della mollica bollente che ti scottava i palmi.

Era la Pasqua della primavera, la prima vera volta che facevo coincidere l’aroma dolce dei mandorli in fiore con l’odore croccante e sensuale dei pani allineati sulle mensole.

E, a volte, era anche la Pasqua dei miei compleanni. Un tripudio di cose belle, di magie di date, di candeline da spegnere e di un pane impastato soltanto per me, col numero dei miei anni inciso sulla crosta.

Era quella la Pasqua.

Questa invece è la prima vera Pasqua in cui nessunonessuno mi ricorderà di quei tempi.