mercoledì 18 novembre 2020

IL NULLA

 Così, vi siete messe d’accordo. Tu e la nonna. Per andarvene. Ve ne siete andate insieme, in questo anno nefasto e surreale, ad appena tre mesi l’una dall’altra. E mi avete lasciato qui, a sbrogliarmela da sola. Ma io avevo soltanto voi. Voi due. Sì, ho pure un marito e due figli: ma si possono avere due madri e perderle in contemporanea? 

Il fatto è che quando perdi una madre è come se ti mancasse il terreno sotto ai piedi. Quando perdi tua mamma capisci di aver perso l’unica persona al mondo che ti avrebbe perdonato sempre, qualsiasi stronzata tu abbia commesso. 

Io non lo sapevo prima. 

Ora non so più niente. 

Perdere una madre è un fatto naturale, mamma. Solo che io e te non eravamo pronte. Era, forse, ancora presto. E poi, non c’eravamo preparate. Eravamo prese a smaltire l’assenza di colei che è stata mamma per entrambe. Dovevamo metterci tutto l’impegno, dovevamo recuperare il tempo impiegato ad accompagnare nonna, dovevamo ricucire le discrepanze, festeggiare il tuo compleanno e poi fare il Natale. Che cosa saresti rimasta a fare giù da sola a Natale? Dovevi venire a Roma, dove io avrei potuto strigliarti a dovere e dirti che non si può piangere per sempre per un dolore, che il tempo è prezioso e che eravamo tenute a goderlo senza più compatimenti. 

Solo che a te è venuta la bronchite. Il giorno prima avevi la bronchite – ci avevo parlato io col nostro dottore di famiglia e mi aveva garantito sull’efficacia degli antibiotici – e il giorno dopo eri ammalata di cancro al pancreas e le metastasi erano già ovunque. 

Come fa una bronchite a trasformarsi in un cancro in 24 ore ancora non me lo spiego. Al medico ho raccomandato di cambiare mestiere. 

Però a te non ti ho rivelato nulla. Che cosa avrei dovuto dirti? Mamma, hai un tumore all’ultimo stadio e stai per morire? Non avresti retto. Poi, al pancreas. Per lungo tempo abbiamo scandagliato la tua testa, abbiamo fatto accertamenti, analisi, risonanze, tac: nessun tumore maligno neppure a pagare. Ma non ti davi pace, negli ultimi anni continuavi a stare male. E’ depressa, ipocondriaca, mi ripetevano gli psichiatri, è normale, con la vita che ha avuto. 

E io ho creduto a loro, mamma. Perché non avrei dovuto? Le tue chiusure, i tuoi isolamenti, le tue arrendevolezze. Ho sempre lottato contro lo spettro del passato, fiduciosa di riuscire a tirarti fuori dal pantano. 

Nel pantano ci siamo scivolate insieme. Nell’arco di un mese. Un mese esatto. Il mese del calvario. 

Io e te. Da sole. Come un tempo. Come allora. A lottare contro un mostro questa volta invincibile di cui tu hai fiutato soltanto il sentore. 

Non è stato facile guardarti morire, mamma. Un giorno dopo l’altro, ad una velocità e tra sofferenze che mai avrei creduto possibili per te. I dottori che ti hanno preso in cura mi hanno guardato con compassione. Ma come, un depressione sintomatologica come quella di sua mamma e nessuno ha capito che poteva essere un campanello d’allarme? Nella prossima vita studierò medicina, solo per provare a salvarti e a salvare tutte quelle persone che manifestano depressioni strane e accuratamente dettagliate nei sintomi. 

Non è stato facile guardarti morire e dirti che non stava accadendo, che presto sarebbe passato tutto, che ti avrei riportata a casa. Non sono stata una brava figlia. Ti ho sempre tenuta all’oscuro di molte verità. Non ti ho mai confidato le mie debolezze, le mie paure, i miei rimpianti. Non ti ho mai perdonato di esserti arresa, di non esserti voluta ricostruire una famiglia da capo. Non ti ho mai graziato delle assenze, di quando ti sprangavi nel tuo dolore sordo fatto di ricordi altrettanto dolorosi che erano pure i miei. 

L’ho fatto l’ultimo mese, ti ho assolta da tutto, ma non so se è valido. 

Quando è stato il momento di trasferirti nella struttura per malati terminali, mi hanno chiesto la data del tuo divorzio, per certificare la separazione legale dal coniuge e consentirmi di prendere tutte le decisioni inerenti la tua vita (o la tua morte). Non me la ricordavo. Ho fatto un giro di telefonate. Non ricordava nessuno. Nessuno si è segnato la data in cui siamo tornate libere. Mi è sembrata una sconfitta. 

Sono anche andata a comprarti i vestiti per le esequie. La commessa ha pianto insieme a me. Non so neppure se ho scelto bene, se quegli strass sulla giacca ti sarebbero piaciuti. Forse, sì. La notte in cui ti ho vestita insieme all’infermiere mi è sembrato sorridessi. Ho avuto anche il dubbio che non fossi veramente morta, che era tutta una bugia di quel posto orribile in cui muore inesorabilmente chiunque venga accolto. Te l’ho anche detto quando siamo rimaste sole, io e te, tu vestita con la giacca con gli strass e la gonna nera lunga e io incastrata su quella panchina di metallo che ho trovato scomodissima. 

Siamo sempre state sole, mamma. Nessuno ha mai condiviso con noi gli istanti concreti dei momenti peggiori. Quelli che la nonna ha tentato di cancellare con la sua allegria. 

Magari l’hai voluta raggiungere, la nonna. Senza di lei ti è sembrato tutto grigio e vuoto, invivibile. Ma c’ero io. Con un po’ di calma sarei riuscita a prendere il suo posto. Dovevi darmi più fiducia. Io non mi sarei arresa. 

Non ti ho mai neppure rivelato l’esistenza di questo blog. Non l’h fatto perché tu eri una molto social; e io mi vergognavo. Poi ad ogni post saresti passata a lasciarmi decine di commenti ed io sono sempre stata diversa da te: il mondo fuori per te è stato la valvola di sfogo, non per raccontare le tue sofferenze, bensì per elargire il tuo lato buono; io, invece, ho sempre avuto paura del mondo, dei giudizi, degli psicolabili che si nascondono in ogni dove, degli amici che puntualmente si scoprono tutt’altro, della sofferenza che si ricava a mostrare il fianco. 

Solo adesso sono andata a rileggermi le cose che scrivevi su FB. Ogni giorno un post, anche più di uno. Il 7 giugno del 2017 tu scrivevi questo:


Allora, mamma, sappi che io non sono né forte, né coraggiosa. Non lo sono mai stata. E se anche ho posseduto un po’ di forza e di coraggio, li ho impiegati a tenerti la mano fino alla fine e a vederti con tutti quei tubi che non mi hanno permesso di abbracciarti neppure quando me lo hai chiesto. Il giorno del tuo sessantaduesimo compleanno, lo stesso giorno in cui sono stata costretta ad organizzare il tuo funerale e che avresti dovuto invece festeggiare con tuo nipote che di anni ne ha compiuto otto, quel poco di forza e di coraggio erano già belli che andati. 

Adesso è il Nulla. Dal nulla, dicono, si possa ricostruire. Ma cosa rimane di me, di quella che pensavo io fossi, in tutta sincerità, non lo so. 

Provo a sbandierare il mio dolore, per una volta, io che ho sempre apprezzato chi con dignità fa della propria sofferenza uno scrigno intimo. Il dolore è come una malattia: inizialmente chi ne è spettatore ne rimane sgomento e tenta di alleviarlo; successivamente, scatta il meccanismo di salvezza: il dolore altrui diventa fastidioso, insopportabile. Il dolore, le sofferenze, sono di chi ce l’ha: e il mondo straripa di dolori immensi e distruttivi, alcuni neppure contemplabili. 

Sono arrivata a pensare che questo blog mi porti male: ogni volta che ci scrivo mi accade l’indicibile. 

Sfido la sorte. 

Dove sei, adesso, mamma? Io ad accoglierti vedo solo il nulla. Se potessi farmi sapere che non è così. Mi rimangono i tuoi occhi sorridenti da una foto dell’estate. Te l’ho scattata io quella foto. Sorridevi a me. Sono quella delle foto che poi finiscono al cimitero. E’ successo con tutta la famiglia. 

Il nulla è una fotografia bianca e senza luce. Quel nulla che vi ha inghiottiti tutti troppo presto e dal quale continuate a sorridermi. 

Ciao mamma, chissà se veramente riesci a sentirmi.