mercoledì 18 novembre 2020

IL NULLA

 Così, vi siete messe d’accordo. Tu e la nonna. Per andarvene. Ve ne siete andate insieme, in questo anno nefasto e surreale, ad appena tre mesi l’una dall’altra. E mi avete lasciato qui, a sbrogliarmela da sola. Ma io avevo soltanto voi. Voi due. Sì, ho pure un marito e due figli: ma si possono avere due madri e perderle in contemporanea? 

Il fatto è che quando perdi una madre è come se ti mancasse il terreno sotto ai piedi. Quando perdi tua mamma capisci di aver perso l’unica persona al mondo che ti avrebbe perdonato sempre, qualsiasi stronzata tu abbia commesso. 

Io non lo sapevo prima. 

Ora non so più niente. 

Perdere una madre è un fatto naturale, mamma. Solo che io e te non eravamo pronte. Era, forse, ancora presto. E poi, non c’eravamo preparate. Eravamo prese a smaltire l’assenza di colei che è stata mamma per entrambe. Dovevamo metterci tutto l’impegno, dovevamo recuperare il tempo impiegato ad accompagnare nonna, dovevamo ricucire le discrepanze, festeggiare il tuo compleanno e poi fare il Natale. Che cosa saresti rimasta a fare giù da sola a Natale? Dovevi venire a Roma, dove io avrei potuto strigliarti a dovere e dirti che non si può piangere per sempre per un dolore, che il tempo è prezioso e che eravamo tenute a goderlo senza più compatimenti. 

Solo che a te è venuta la bronchite. Il giorno prima avevi la bronchite – ci avevo parlato io col nostro dottore di famiglia e mi aveva garantito sull’efficacia degli antibiotici – e il giorno dopo eri ammalata di cancro al pancreas e le metastasi erano già ovunque. 

Come fa una bronchite a trasformarsi in un cancro in 24 ore ancora non me lo spiego. Al medico ho raccomandato di cambiare mestiere. 

Però a te non ti ho rivelato nulla. Che cosa avrei dovuto dirti? Mamma, hai un tumore all’ultimo stadio e stai per morire? Non avresti retto. Poi, al pancreas. Per lungo tempo abbiamo scandagliato la tua testa, abbiamo fatto accertamenti, analisi, risonanze, tac: nessun tumore maligno neppure a pagare. Ma non ti davi pace, negli ultimi anni continuavi a stare male. E’ depressa, ipocondriaca, mi ripetevano gli psichiatri, è normale, con la vita che ha avuto. 

E io ho creduto a loro, mamma. Perché non avrei dovuto? Le tue chiusure, i tuoi isolamenti, le tue arrendevolezze. Ho sempre lottato contro lo spettro del passato, fiduciosa di riuscire a tirarti fuori dal pantano. 

Nel pantano ci siamo scivolate insieme. Nell’arco di un mese. Un mese esatto. Il mese del calvario. 

Io e te. Da sole. Come un tempo. Come allora. A lottare contro un mostro questa volta invincibile di cui tu hai fiutato soltanto il sentore. 

Non è stato facile guardarti morire, mamma. Un giorno dopo l’altro, ad una velocità e tra sofferenze che mai avrei creduto possibili per te. I dottori che ti hanno preso in cura mi hanno guardato con compassione. Ma come, un depressione sintomatologica come quella di sua mamma e nessuno ha capito che poteva essere un campanello d’allarme? Nella prossima vita studierò medicina, solo per provare a salvarti e a salvare tutte quelle persone che manifestano depressioni strane e accuratamente dettagliate nei sintomi. 

Non è stato facile guardarti morire e dirti che non stava accadendo, che presto sarebbe passato tutto, che ti avrei riportata a casa. Non sono stata una brava figlia. Ti ho sempre tenuta all’oscuro di molte verità. Non ti ho mai confidato le mie debolezze, le mie paure, i miei rimpianti. Non ti ho mai perdonato di esserti arresa, di non esserti voluta ricostruire una famiglia da capo. Non ti ho mai graziato delle assenze, di quando ti sprangavi nel tuo dolore sordo fatto di ricordi altrettanto dolorosi che erano pure i miei. 

L’ho fatto l’ultimo mese, ti ho assolta da tutto, ma non so se è valido. 

Quando è stato il momento di trasferirti nella struttura per malati terminali, mi hanno chiesto la data del tuo divorzio, per certificare la separazione legale dal coniuge e consentirmi di prendere tutte le decisioni inerenti la tua vita (o la tua morte). Non me la ricordavo. Ho fatto un giro di telefonate. Non ricordava nessuno. Nessuno si è segnato la data in cui siamo tornate libere. Mi è sembrata una sconfitta. 

Sono anche andata a comprarti i vestiti per le esequie. La commessa ha pianto insieme a me. Non so neppure se ho scelto bene, se quegli strass sulla giacca ti sarebbero piaciuti. Forse, sì. La notte in cui ti ho vestita insieme all’infermiere mi è sembrato sorridessi. Ho avuto anche il dubbio che non fossi veramente morta, che era tutta una bugia di quel posto orribile in cui muore inesorabilmente chiunque venga accolto. Te l’ho anche detto quando siamo rimaste sole, io e te, tu vestita con la giacca con gli strass e la gonna nera lunga e io incastrata su quella panchina di metallo che ho trovato scomodissima. 

Siamo sempre state sole, mamma. Nessuno ha mai condiviso con noi gli istanti concreti dei momenti peggiori. Quelli che la nonna ha tentato di cancellare con la sua allegria. 

Magari l’hai voluta raggiungere, la nonna. Senza di lei ti è sembrato tutto grigio e vuoto, invivibile. Ma c’ero io. Con un po’ di calma sarei riuscita a prendere il suo posto. Dovevi darmi più fiducia. Io non mi sarei arresa. 

Non ti ho mai neppure rivelato l’esistenza di questo blog. Non l’h fatto perché tu eri una molto social; e io mi vergognavo. Poi ad ogni post saresti passata a lasciarmi decine di commenti ed io sono sempre stata diversa da te: il mondo fuori per te è stato la valvola di sfogo, non per raccontare le tue sofferenze, bensì per elargire il tuo lato buono; io, invece, ho sempre avuto paura del mondo, dei giudizi, degli psicolabili che si nascondono in ogni dove, degli amici che puntualmente si scoprono tutt’altro, della sofferenza che si ricava a mostrare il fianco. 

Solo adesso sono andata a rileggermi le cose che scrivevi su FB. Ogni giorno un post, anche più di uno. Il 7 giugno del 2017 tu scrivevi questo:


Allora, mamma, sappi che io non sono né forte, né coraggiosa. Non lo sono mai stata. E se anche ho posseduto un po’ di forza e di coraggio, li ho impiegati a tenerti la mano fino alla fine e a vederti con tutti quei tubi che non mi hanno permesso di abbracciarti neppure quando me lo hai chiesto. Il giorno del tuo sessantaduesimo compleanno, lo stesso giorno in cui sono stata costretta ad organizzare il tuo funerale e che avresti dovuto invece festeggiare con tuo nipote che di anni ne ha compiuto otto, quel poco di forza e di coraggio erano già belli che andati. 

Adesso è il Nulla. Dal nulla, dicono, si possa ricostruire. Ma cosa rimane di me, di quella che pensavo io fossi, in tutta sincerità, non lo so. 

Provo a sbandierare il mio dolore, per una volta, io che ho sempre apprezzato chi con dignità fa della propria sofferenza uno scrigno intimo. Il dolore è come una malattia: inizialmente chi ne è spettatore ne rimane sgomento e tenta di alleviarlo; successivamente, scatta il meccanismo di salvezza: il dolore altrui diventa fastidioso, insopportabile. Il dolore, le sofferenze, sono di chi ce l’ha: e il mondo straripa di dolori immensi e distruttivi, alcuni neppure contemplabili. 

Sono arrivata a pensare che questo blog mi porti male: ogni volta che ci scrivo mi accade l’indicibile. 

Sfido la sorte. 

Dove sei, adesso, mamma? Io ad accoglierti vedo solo il nulla. Se potessi farmi sapere che non è così. Mi rimangono i tuoi occhi sorridenti da una foto dell’estate. Te l’ho scattata io quella foto. Sorridevi a me. Sono quella delle foto che poi finiscono al cimitero. E’ successo con tutta la famiglia. 

Il nulla è una fotografia bianca e senza luce. Quel nulla che vi ha inghiottiti tutti troppo presto e dal quale continuate a sorridermi. 

Ciao mamma, chissà se veramente riesci a sentirmi.



domenica 20 settembre 2020

Sono ancora in Macedonia

L’estate è andata. Così dicono. Ora pare che da domani entrerà una nuova perturbazione e caleranno pure i 50 gradi all'ombra che inibiscono le sinapsi cerebrali. Tanto poi ci lamenteremo della pioggia e dei primi raffreddamenti. 

(Non l’ho ancora nominato. Piano, che ci arrivo.) 

E' ricominciata la scuola. Non è come gli anni passati. Ovvio. Si notano di più i frustrati, gli incazzati a morte con la società, i corrosi dall'anno nefasto e le mamme che non tromb(ops!). Soprattutto le mamme che non tromb(ari-ops!). 

Non si nota più così tanto se non ti sei fatto la barba e neppure se non hai strappato via i baffetti. 

E' un momento così, di rincoglionimento generale. 

Io mi sentivo meno stanca quando andavo a lavorare. Mi alzavo alle 5 del mattino e facevo un migliaio di cose. Affrontavo persino ogni giorno il raccordo. Adesso mi sveglio con calma e il primo pensiero è che devo chiamare l’inps per la storia della cassa integrazione di aprile che non è mai arrivata. 

(Ancora? E ancora, sì. 
Ne approfitto per salutare le signorine del call center inps, le quali, poverette, ne sanno meno di me.) 

Dell’estate rimane il caldo. E la confusione dei mesi: quel senso di stordimento che si protrae da marzo e che non è mai passato. Neanche quando il mare lo abbiamo goduto e salutato. 

Io sto confusa, assai. Forse ci si confonde quando la vita si stramba per i fatti suoi, senza che tu ci abbia in fondo messo lo zampino.
 
E tutto è da rifare. 
E tutto è da ricominciare. 

Sto così confusa che non mi riesce un solo discorso lineare e posato. 

Ad esempio, mentre parlo, per dire, della frittata con le zucchine, mi viene da interrogarmi sulla questione dei grembiuli a scuola, che non è paglia, eh!, non lo è affatto: 

a scuola di mio figlio la preside ha imposto categoricamente il grembiule in base all'interpretazione del regolamento anti-Covid: i bambini sono obbligati a tenere il grembiule anche durante l’attività fisica; 
a scuola del figlio della vicina la preside ha vietato categoricamente il grembiule in base all'interpretazione del regolamento anti-Covid: nessun bambino può presentarsi col grembiule, pena l’allontanamento immediato. 

(mumble… 
Lo sapevo! L’ho nominato. Ci arrivavo, prima o poi.) 

«Ma come stai?» mi ha chiesto un’amica che non vedevo dal lockdown. 

«E come sto?» le ho risposto. «Sono ancora in macedonia, io. Come quelle coppe di frutta a pezzetti che prima di mangiartele ci spruzzi sopra un sorso di limone o una lacrima di brandy ma non sai mai veramente tutto quello che ci hanno messo dentro».

E Voi, come state? Mi siete mancati.



venerdì 10 luglio 2020

Vorrei tornare indietro per un momento

Domani partiremo. Riproviamo con qualche giorno di ferie. L’anno passato arrivammo a destinazione e fummo costretti a tornare alla base: i contrattempi sono tali proprio perché accadono quando meno te l’aspetti. I contrattempi seri durante le ferie sono mazzate senza redenzione. 

Vabbè. Poi l’abbiamo sfangata. Poi c’è stata la pandemia. Poi avevamo smesso di sperare di rivedere il mare. Poi hanno mandato il virus in vacanza (?). 

Ed eccoci qua. Valigie pronte, pargoli entusiasti, un filo di ottimismo tra le incertezze del periodo. 

Però ho il cuore pesante. Pesante pesante. Porto i bambini qualche giorno al mare, ma lo faccio giusto per far felici loro. L’estate non mi dice più bene. L’estate è diventata la stagione delle contrarietà. 

Quest’estate nonna ha deciso di arrivare al capolinea. Ad un certo punto ha chiuso gli occhi e non li ha più riaperti. Solo che il suo cuore continua a battere. Il suo cuore da combattente non molla. 

Nonna mi ha cresciuta. Per varie vicissitudini, è stata la mia mamma. Tutto quello che sono lo devo a lei. 

Lo scorso fine settimana sono corsa a salutarla. Roma-Reggio Calabria con un chiodo che mi trapassava l’anima. 

Ho provato a parlarle. Per un momento ho pensato mi sentisse. Non potevo sbagliarmi: ha mosso la mano e le è venuta giù una piccola lacrima. 

Mi senti nonna, mi senti? 

I miei ricordi sono impastati di nonna. Potrei scrivere un libro. 

Ma in questo periodo ho un’immagine fissa. Il rigurgito di un pomeriggio d’autunno. 

Avrò avuto 14 anni. E se io ne avevo 14, lei ne aveva 55. Perché quando io sono nata, nonna aveva la mia età. L’età di adesso. Sarebbe potuta essere mia madre. 

E’ un pomeriggio di inizio novembre, con le nuvole basse e l’aria che incomincia a diventare frizzante. Siamo venute a dar da mangiare ai conigli. La campagna è un manto silenzioso di rosso e magenta. La nonna si affaccenda tra cumuli di paglia, mangimi e gatti ruffiani che le si strusciano addosso. Uno rischia di farla inciampare. 

Ride. Ché lei ride sempre. Ha stampato questo sorriso giocondo sulla faccia genuina di chi non teme il contatto con qualsiasi forma di vita. E’ salda, mia nonna. Una di quelle persone concrete e perspicaci la cui vicinanza infonde sicurezza. 

«Andiamo a raccogliere un cesto di castagne» mi dice. 

«E dove?» 

Non ci sono castagni nella nostra proprietà. 

«Lì, dentro da Tanino» insiste indicando l’appezzamento di terra limitrofo al nostro. 

Strabuzzo gli occhi. «Ma che dici, nonna, è tutto recintato e il cancello è chiuso col lucchetto». 

Ride. Ché lei ride sempre. Nonna ha faticato a piangere persino il giorno in cui nonno se n’è andato all’improvviso con un infarto, sulle scale del Comune. 

«Vieni, vieni, quanto la fai difficile. Io scavalco e tu guardi se arriva qualcuno. Che se ne deve fare Tanino di tutte quelle castagne, vecchio e rincoglionito com’è». 

Così, si solleva la gonna e scavalca il cancello. A metà, una ciabatta le vola via. Le vedo le mutande. Perde l’equilibrio. Per poco non mi piglia una sincope. 

«Nonna, ti prego, perché non andiamo a comprarle le castagne, finisce che ti fai male!» 

«Uh, quanto sei lamentosa. E’ solo un cancello, chiunque sa scavalcare un cancello». 

E sparisce dall’altra parte. 

Ora canta. La sento cantare poco distante da me. Canta Il tuo mondo di Claudio Villa. Raccoglie castagne e canta: 

“Vorrei tornare indietro per un momento 

Ma il tempo non si ferma, corre lontano 

Io stringo forte a me la piccola mano 

Che un giorno mi accarezzava 

E da quel giorno i miei ricordi li dedico a te…” 

Io muoio di paura. Qualcuno ci sentirà. Se arriva Tanino è capace che prende la scopetta che tiene stipata nel capanno e ci spara. 

«Nonna, ti prego fai in fretta. E non cantare! Che ci canti…». 

Ma nonna canta, se ne frega lei. Canta e torna con un cesto stracolmo di castagne che si tiene appeso al braccio mentre si accinge a rifare la scalata. Una donna a 55 anni che scavalca un cancello alto almeno due metri e mezzo e canta. 

E’ così che la ricordo. E’ così che vorrei si ricordasse. Mentre scavalca l’ultimo cancello della sua vita e canta forte per farsi sentire. 

Buone vacanze a tutti. Ci risentiamo al mio ritorno.


martedì 30 giugno 2020

L'Autore del blog accanto - Daniele Verzetti

Per la mia rubrica "L'autore del blog accanto", questo mese ospito con immenso piacere Daniele Verzetti, il Rockpoeta, del blog Agorà.

Daniele è un poeta. Ma non un poeta qualsiasi. Se non avete mai letto i suoi versi, dovreste farlo;  perché le poesie di Daniele non lasciano mai indifferenti e rappresentano il grido lancinante delle ingiustizie che affliggono il nostro mondo.

Daniele, oltre a curare l'Agorà, è stato spesso ospite di programmi televisivi e radiofonici proprio per la caratteristica sociale dei componimenti di cui è autore. 
Ma lascio a lui la parola attraverso la piccola intervista che è stato così gentile da concedermi. 
Alla fine dell'intervista non perdete il video inedito con una bellissima poesia intitolata "Addio Italia" che Daniele si è premurato di regalarmi per questa occasione.



Ciao Daniele, grazie per essere qui. 

Iniziamo: che genere di persona ti definiresti? 

Forse questa è la domanda più difficile, non sono bravo a parlare di me stesso ma potrei provare a definirmi una persona curiosa, sensibile, che non ama le ingiustizie, le combatte ed ha, tra le altre, come arma la parola, che utilizza per denunciare quanto di storto e sbagliato esiste in questa società, che poi di fatto siamo noi in quanto tutti noi formiamo la collettività. 


Perché scrivi? 

Perché non riesco a farne a meno, è un'esigenza irrinunciabile oserei quasi definirla un'impellenza che piacevolmente mi perseguita fin dal lontano 1987 quando scrissi la mia prima poesia. Ho provato a stare senza scrivere ma sono letteralmente i versi a venire da me, anche perché sono colpito da tutto quello che mi circonda e quindi sono una spugna che assorbe tutto e lo restituisce in poesia.


Di cosa parlano le tue poesie? 

Io nelle mie poesie tratto essenzialmente di tematiche sociali, sono un poeta sociale pertanto o, come una volta un lettore mi ha definito, un poeta di impegno civile, espressione forse un po' datata ma molto vera e di grande fascino. 


Quando e perché il blog? 

Quando, nel dicembre 2006, perché... perché avevo l'esigenza di comunicare la mia visione della realtà che ci circonda sia in prosa con degli editoriali sia poi sempre di più in poesia...


Perché "Agorà"? 

L'agorà al tempo dei greci era la piazza principale della polis dove tutto accadeva, compreso l'incontrarsi ed il parlare liberamente di ogni tema. Ecco, il mio blog vuole essere proprio quello, una piazza virtuale nella quale chiunque, nel rispetto delle idee altrui e di chi le espone, può esprimere liberamente il proprio pensiero sui temi trattati. 


Cosa speri traggano i lettori dai tuoi versi? 

Spero che possano essere raggiunti e toccati dal messaggio che le mie poesie contengono, spero che i miei versi siano uno spunto di riflessione su temi noti o l'occasione per conoscere realtà e tematiche meno conosciute perché non trattate dai media e quindi ingiustamente ai margini dell'informazione mainstream. 


Anni fa mi è capitato di vederti in televisione, hai partecipato al programma Tu si que vales. Che genere di esperienza è stata? Cosa ti ha lasciato? 

Pessima, e pensare che è stata la loro redazione a cercarmi con insistenza. Io ho fatto l'errore di accettare credendo potesse essere comunque una vetrina, ma essendo un programma dove ci finisce ogni genere di immondizia, un programma non in diretta, sono stato penalizzato, tagliato (molte mie frasi dell'intervista successiva e che metteva molti dei giudici in difficoltà sono state "sapientemente" tagliate) e non valorizzato. E pensare che le mie esperienze radiotelevisive sono state tante e tutte molto positive. Tra le molte, vorrei ricordare quella radiofonica su Radio Rai 1 con Maurizio Costanzo. Lessi due mie poesie, e fui intervistato da Costanzo. Un'intervista bellissima. E poi tante emittenti private, insomma se proprio volete vedere chi sono e cosa sono cercate sul mio sito alcune delle molte interviste radiofoniche, e guardate i miei video. Quello che ho imparato è che se sai già che è un programma gestito da un manipolo di buffoni, dovevo capire già da me cosa potevo aspettarmi. E qui mi fermo, per non rischiare querele. 


Solo poesia o anche prosa, in futuro? 

Credo proprio solo poesia, non sono assolutamente tagliato per i romanzi. 


Un blog che consiglieresti a tutti. 

Ovvio, il mio :-)))! Battuta a parte, è difficile risponderti perché ci sono moltissime belle realtà che seguo nell'universo dei blog e citarne solo una mi sembra ingiusto e limitativo. Posso però fare un'eccezione per un blog il cui autore è purtroppo scomparso alcuni mesi fa e che posso fregiarmi dell'onore di avere avuto come amico e di aver goduto della sua stima. È il blog di Vincenzo Iacoponi (https://iacoponivincenzo.blogspot.com) uomo stroardinario e poeta eccezionale. Andate sul suo blog e cercate le sue poesie. 


Una cosa che detesti particolarmente della blogsfera. 

Non so, forse quei blogger che tentano di importare in questo universo virtuale, il dialogo banale, vuoto, stereotipato, spesso anche aggressivo e sgrammaticato, presente su facebook. 


Il tuo motto. 

Non ne ho uno in particolare ma, nonostante i miei versi essendo di denuncia siano raramente positivi e connotati di una vena ottimistica, vorrei chiudere con una citazione di Victor Hugo: "Finirà anche la notte più buia... e sorgerà il sole." 


Ed io, ringraziando ancora Daniele, non posso che ribadirlo: 
"Finirà anche la notte più buia e sorgerà il sole."



giovedì 25 giugno 2020

Mettiamo ordine

Sono disordinata. Lo sono sempre stata. Sono disordinata in pensieri, parole, opere e omissioni (come nella preghiera). 


Sono in grado di pensare a annemila cose insieme. Il mio cervello funziona a scomparti indipendenti: mentre penso che c’è una bolletta in scadenza, in contemporanea sto pensando che la mia amica fa il compleanno, che quella canzone mi ispira un racconto struggente, che dovevo chiamare un collega per un progetto, che mi è appena arrivata una mail, che il cielo oggi è di un bel colore azzurro ma che lo preferisco sempre grigio sfumato fumo perché fa romantico. 

E non è un pensare in successione, come qualcuno potrebbe farmi notare, è proprio un pensare in blocco: lo so perché, alla fine, tutti quei pensieri me li porto aggrovigliati, e mi ritrovo a chiedermi: 

A cosa stavo pensando? 

Mentre penso a tutto il pensabile, 9 su 10, sto cercando qualcosa. Io cerco sempre qualcosa. Le chiavi della macchina, il cellulare, le chiavi di casa, le scarpe che voglio mettere quel giorno, il documento che mi serviva, un messaggio che ho fatto sparire… Per quanto mi riguarda, gli oggetti vivono di vita propria, possiedono un’anima e si nascondono per restarsene in pace e oziare. 

La mia borsa, invece, è il luogo preferito da tutti gli oggetti in generale: ci si può trovare la qualsiasi. E, volutamente, ometto un elenco esemplificativo. 

Così come i pensieri e le cose, mi sfugge il tempo. Il tempo: tiranno e giocoliere di minuti sottratti all'ultimo. Correvo da ragazza dietro alla corriera che mi doveva portare a scuola nel vicino paese; ho continuato a correre tutte le mattine della mia vita di adulta lavoratrice. Adesso corro in compagnia di personaggi magici: uno gnomo di 7 anni e una principessa di 5. Solo loro riescono ad esercitare influssi benefici sulle mie modalità organizzative. Non ho mai bucato una campanella. Certo, ho rischiato l’infarto praticamente tutti i giorni e la frattura delle caviglie causa tacchi, ma la puntualità dei miei bambini non è mai stata scalfita. 

Con la stessa facilità con cui smarrisco gli oggetti, mi perdo i nomi e le facce: ci sono persone che posso incrociare per anni ma di cui non ricorderò mai il nome o le fattezze se solo mi capita di incontrarle al di fuori del contesto in cui sono abituata a vederle. La reazione è puntualmente: 

Ma questo dove l’ho visto? 

Incredibilmente e, nonostante tutto il caos mentale, mi salva una specie di potere che definirei “memoria uditiva”. L’unico vero pregio che mi ha sempre salvato a scuola e a lavoro. A scuola, in particolare, trascorrevo buona parte del tempo a scrivacchiare poesie o frammenti di racconti su un quaderno, ma con la coda dell’orecchio – si può dire? - riuscivo a seguire e a memorizzare quello che veniva detto, appuntando di tanto in tanto, tra le parole che non c’entravano nulla, date o magari formule. 

Insomma, sono disordinata. Ma sono una disordinata felice. Nel senso che, tutto sommato, nel mio disordine ci ho sempre vissuto egregiamente e malgrado tutti i rimproveri. Certo, spesso invidio quelle mamme superorganizzate, precise, metodiche e impeccabili nei tempi. Certo, mi mortifica ogni ritardo che un amico o un familiare subisce. Certo, ho sposato un militare e vi lascio immaginare gli effetti devastanti del mio disordine sul sistema nervoso del consorte. Certo, spesso sono costretta ad operazioni massacranti di riordino in massa. 

Ma… 

Ma si può guarire dal disordine cronico? 

Si accettano consigli, punti di vista ed esperienze di vita. Voglio un sacco bene a chiunque vorrà esporsi.


domenica 21 giugno 2020

Dormi amore dormi

Le Lettere della Domenica #9



Voglia di tornare. Così tanta che ripesco una lettera scritta al Piccolo Principe qualche estate fa. Era la notte prima di partire. La notte prima di tornare. Finalmente.

Dormi amore dormi
 
Domenica 19 Luglio 2014
00:45

Domani partiremo. Tu non lo sai, ma è così.

Tu dormi, amore, ignaro dei bagagli da preparare e delle liste da depennare prima di chiudere casa. Dormi, tra cuscini di sogno, paffuto e rilassato, coi tratti morbidi e un sorriso piccolo dipinto sulla tua piccola bocca, che a guardarti la felicità è tutta in te: la felicità sei Tu.

Prima che ti addormentassi, te l’ho detto: domani partiamo, andiamo al mare, sei contento?
Tu hai sorriso e hai gridacchiato qualcosa, ma a te, che non hai ancora due anni, la parola “andiamo” è sufficiente per renderti gioioso.

Non andiamo al parco o in piscina, tesoro, e neppure a fare la spesa.  Andiamo in un posto lontano, nella mia Terra, nella tua Terra.

Passeremo per la strada grande grande, con quel negozio magico e affollato di lecca lecca giganti e di persone sospese in un viaggio, e per questo felici. 
Arriveremo giuggiù, sulla punta di uno stivale, e attraverseremo il mare su una nave che si farà una scorpacciata di macchine e turisti, fino ad averne la pancia piena, fino ad essere così sazia e soddisfatta da prenderci tutti sulle sue ali di ferro e mostrarci orgogliosa la scia che si lascia dietro, quella scia di schiuma tra una terra e l’altra, la scia di sogni e di speranze che da sempre accompagna chi lascia l’Isola e chi ci fa ritorno.
Respireremo il sale e il vento. E il dolce e amaro odore di combustibile e grasso misto ai buganvillea quando metteremo piede a terra. 

Inizierà così la nostra vacanza, nella mia Terra, nella tua Terra, 
dove a tratti i promontori scendono a picco nell'azzurro marino e allungano braccia di fichi d’india e frutti grossi come pugni chiusi,
 
dove le zie ti stropicceranno di baci le guance piene e ti chiameranno Pannozzo, per dire che sei soffice come un panno e candido come il lino intatto, 

dove il vicinato tutto verrà a farti visita, perché tu sei nato forestiero ma sempre a loro appartieni, e il sangue della Terra è un sacro diritto e un santo dovere, 

dove la nonna ti spremerà il latte dalle mandorle, per farti crescere sano, e il nonno ti insegnerà a nuotare e a guardare i pesci, 

dove i cuginetti proveranno a insegnarti le cose da maschio che fanno solo i maschi, irretiti ancora da strascichi di generazioni maschili stupidamente convinte di prevaricare, 

dove io ti racconterò di generazioni di donne forti e solidali, complici e sognatrici e di come mi abbiano insegnato a sognare un uomo giusto e forte ma consapevole delle proprie debolezze, in grado di abbandonarsi alla tenerezza ma pronto a combattere i meschini, amante della verità ma non assolutista, rispettoso non dei sessi ma delle persone: l’Uomo che io vorrei tu fossi, l’Uomo che mi impegnerò tu sia.

Ma dormi, amore, dormi. Che è tempo di vacanza, e questo basta.

La tua mamma


giovedì 18 giugno 2020

Come ti regalassi fiori

Certe persone mancano più di altre. È così, non ci si può far nulla. 
La mancanza. È il suo anno. L’anno dei brandelli di mancanza che vanno giù e ti tagliano l’esofago, te lo stracciano, te lo fanno a pezzi. 


Un figlio, una madre, un fratello, un amore: certe persone mancano più di altre. 

Ne è nato un comizio nei pressi della cassa, al supermercato. 

«A me, me manca Giacomo». E s’è tolto la mascherina per dirlo. Lo ha visto la guardia giurata che oramai c’ha la mentoniera (ma lui non fa testo). Gli ha fatto segno di ricomporsi, ha gesticolato con le mani: E mettitela quella cazzo de mascherina! Perché me devi fa incazzà… 

« Giacomo è suo figlio?» ho chiesto.

«No. E' un amico». 

La mancanza. Non ci sono più i divieti, quelli pesanti. Ma si sono modificati gli stili di vita. Tutti hanno perso qualcosa. O qualcuno. 

La mancanza. E’ una brutta bestia che divora a morsi tutto ciò che ci è stato strappato. Ci scendi a patti solo a giorni alterni. Un giorno l’afferri al guinzaglio e la domi a dovere, il giorno dopo allenti la presa e le permetti di stritolarti le ossa. 

Ci sono schegge di ossa ovunque. Andando per strada le raccolgo, le mischio alle mie. E poi te le regalo. Come ti regalassi fiori.



lunedì 15 giugno 2020

Solo belle parole

Certe cose rimangono impresse. Come l’esame di semiotica. Ad un certo punto lo dovevo fare, non era più rimandabile. 

La semiotica è la disciplina che studia i segni e la loro significazione. Detta così sembra semplice. Ma non lo è. La semiotica è una roba più o meno astratta che c’entra con la semiologia, la semantica, la logica, la linguistica, la psicologia, l’antropologia… E, all’epoca, c’entrava pure con la professoressa D.D.: che, se non avevi effettivamente capito di cosa stessimo parlando, non ti faceva passare neppure se t’eri studiato a memoria il trattato di Eco. 

Noi non capivamo. Nessuno capiva. La D.D ci odiava a morte. Veniva a lezione vestita di nero, a lutto. Spiegava, si infervorava, sbandierava le teorie di Bally e Saussurre come un testimone di Geova sbandiererebbe la salvezza del regno dei cieli. 

Noi, il vuoto. Sorrisi spenti incastrati su facce che esprimevano imbarazzo. 

Poi, un giorno ci andai a parlare. Afferra il leone per la coda. O una cosa del genere. Era maggio, avevo un sacchetto di fragole acquistate nel chiosco accanto all'università. 

«A lei piacciono le parole?» 

«Certo che mi piacciono, ma che c’entra…» 

«C’entra sempre. Le parole sono l’unico vero strumento che l’essere umano possiede. Pensi a cosa può scatenare una parola detta o scritta. Le parole possono far scoppiare una guerra, definiscono una legge, impongono regole, costruiscono o distruggono rapporti, veicolano o meno una notizia e dunque un messaggio. Le parole sono tutto ciò che abbiamo. Senza, siamo scatole vuote. Concorda?» 

«Certo che concordo.» 

A parte che, pur di passare quell’esame, avrei concordato persino sui terrapiattisti, ma tutto quel discorso sulle parole mi convinceva veramente. 

La D.D. puntò il sacchetto che tenevo sulle gambe.

«Le piacciono anche le fragole, vedo…» 

«Eh, ma che c’entra?» 

«C’entra sempre. Provi, provi a nominarle...» 

«Ma che?» 

«Le fragole.» 

«Le fragole?» 

«Sì, le fragole. Dica: Fragola.» 

«Fragola.» 

«Ma non così, santo cielo, ci metta dentro significato e significante. Senta me: Frà-go-la. Ascolti, ascolti: FRÀ-go-LA. Se vogliamo spingerci oltre: frà- GOLA. La sente la bellezza di questa parola? I segni e i suoni che richiamano l’esplosione del rosso del frutto, della seducente consistenza, della dolcezza del gusto, delle promesse della fonetica? 
Provi, provi a sussurrare fragola al suo fidanzato. Provi e poi ne riparliamo… Vada, acquisisca l’uso della parole frà-go-la, e poi ne riparliamo. Vada, vada…». 

Non ne riparlammo mai più. Accadde che, dopo lo scritto, il giorno dell’esame orale la D.D ebbe un malore e non si presentò. Venne il preside di facoltà e disse che, eccezionalmente per quell’occasione, si sarebbe creata una commissione straordinaria per consentirci di portare a termine la prova. Ci furono canti ed esplosioni di gioia. Qualcuno andò a comprare una paio di bottiglie di spumante. Brindammo alla salvezza. 

Fomentata dal momento, mi feci avanti e dissi frà-go-la al mio compagno di banco che mi piaceva un sacco. Quello, però, si limitò a levarmi l’alcool dalle mani e a battermi il cinque: semiotica era fatta e stava pure arrivando l’estate. 

Le fragole ho continuato a mangiarmele e basta. Di semiotica non ci ho mai capito granché. Però, al discorso sulla forza e la bellezza delle parole ho continuato a pensarci. E non ho mai smesso. 

La forza intrinseca delle parole è innegabile. La loro bellezza risiede non solo nel significato ma anche nel suono. Sembra niente, ma il suono di una parola, unito all’accezione che essa incarna, può farla rientrare nella classifica speciale delle parole più belle

Esistono diversi studi di tendenza a riguardo. Mi diverto a scandagliare le classifiche. Ultimamente mi sono soffermata su 5 parole che, per sentire comune, pare siano tra le più belle:








Cosa ne pensate?
Se vi va, lasciate nei commenti una parola che, a prescindere dal significato, vi piace particolarmente, magari che usate spesso o di cui non potreste fare a meno. Perché le parole sono uno degli strumenti più preziosi che possediamo: senza parole non potremmo neppure essere qui a scherzarci sù.

mercoledì 10 giugno 2020

E' tornato Ispirazioni: su una farfalla

Qualcuno ricorderà certamente Ispirazioni&Co. l'appuntamento ideato da Federica Redi, Barbara Fanelli e altre due blogger non più nei paraggi, che, fino a qualche anno fa, ogni mese, consentiva di sbizzarrirsi sulla traccia di un tema specifico della durata di 30 giorni. Le Comari dicevano, ad esempio, "Rosso" e giù post d'ogni genere, da quelli creativi, a quelli di notizia passando per quelli letterari. Non c'era limite alla fantasia. 
E' stato un bel fare blogging in quel periodo, stimolante, amichevole, aggregativo, come non se ne vede più in giro. Chi ha partecipato, sono certa che, come me, ne avverta una certa nostalgia.
 Ispirazioni è tornato: questa volta, qui,  sui profili Instagram delle due ideatrici. 
Se volete sapere come funziona potete dare uno sguardo, qui, al post di presentazione di Barbara.
Intanto, è partito il primo tema: #farfalle. E come da tradizione c'è scappato un raccontino, anzi, questa volta una favola, con la gentile collaborazione de LoGnomo e VikiLove.

Ve la riproponiamo di seguito.

IL RAGAZZO CON LE ALI DI FARFALLA


"Se anche voi avete ali per volare, fate attenzioni ai venti. Perché se nella vita ogni relazione è importante, lo è ancor di più dargli il giusto valore."



C’era una volta un bambino che era nato con un paio di ali di farfalla attaccate alle schiena. Quando i suoi genitori lo avevano visto, avevano spalancato la bocca per lo stupore.

«E mo’?» aveva domandato la mamma. «Mica può crescere con queste ali? A parte che sarò costretta a bucargli tutti i vestiti, ma poi lo prenderanno in giro». Il papà, angosciato, alzò le spalle. «Lo porteremo dai migliori dottori, vedrai che riusciranno a curarlo».

Il bambino, a parte le ali, cresceva grazioso e simpatico. Era pure intelligente, tanto che in famiglia si stupivano di come un bambino con quelle ali così assurde potesse anche essere svelto di mente.

«A questo punto, ci toccherà dargli un nome» propose il papà alla mamma. Erano già trascorsi un paio d’anni.



«Che nome vorresti dare a uno così? Io non riesco a decidere». La mamma tentava di camuffare, ma era la più incavolata per quella anomalia; in cuor suo credeva che il figlio avrebbe tanto sofferto e non ci si voleva affezionare.



«Lo chiameremo Alcibiade» annunciò alla fine. «Che in una lingua che non è la nostra significa uomo forte».

Alcibiade sorrise. Il suo nome era veramente bello. In verità, anche le sue ali erano bellissime, molto vicine ai colori della farfalla pavone, con un rosso acceso intervallato da macchie viola e gialle con riflessi blu elettrico e verde. Tutto sommato, a lui non dispiacevano. Se solo avesse saputo cosa farsene.

«Possiamo provare a tagliarle via. Con le nuove tecnologie di microchirurgia avanzata ci sono buone probabilità che l’intervento riesca. Ma non so garantirvi che effetti ci potranno essere sul paziente» disse carezzandosi il pizzetto da luminare l’ennesimo medico che lo visitò.

I genitori di Alcibiade si guardarono perplessi. «No, no» dissero alla fine. «Ce lo teniamo così, meglio un figlio alato che un figlio morto o catatonico».

Alcibiade crebbe bello, forte e con un paio di grandissime ali di farfalla mozzafiato che crescevano insieme a lui. La mamma prese l’abitudine di legargliele con lo scotch. «Almeno non ti danno fastidio e sei libero di muoverti» si giustificava.

Un giorno Alcibiade tornava da una partita a calcetto con gli amici. Era stanco e un po’ deluso. Con quelle ali legate dietro la schiena non riusciva mai ad arrivare in tempo sulla palla. Per non parlare delle ragazze, ogni volta che ne conquistava una, bastava che quella si accorgesse del malloppone che si portava dietro e scappava via a gambe levate. «E’ che sono troppo accese queste ali, magari se fossero meno appariscenti» aveva puntualizzato l’ultima. 
 «Prima o poi me le levo da solo» bofonchiava, dunque, Alcibiade tornando a casa. 


«Giovanotto, viè un po’ qui» lo chiamò un vecchio signore che leggeva placidamente il giornale spalmato su una panchina. «Ma c’hai le ali e le tieni legate?».

«Ma sì, è mia madre, non vuole che me ne vada in giro con le ali in bella vista. Di farfalla, poi… Almeno mi fossero venute le ali da sparviero. Non so se mi capisce».

«Oh, sì sì, io ti capisco, eccome». Il signore si scostò appena e, miracolo dei miracoli, aveva le ali di farfalla pure lui. Alcibiade spalancò la bocca stupito e anche un po’ invidioso. Il vecchio aveva delle meravigliose ali di un nero satinato appena punteggiate di azzurro.

«Ma lei però ce le ha scure! Che fortuna, passano quasi inosservate».

«E che c’entra ora il colore? Le ali ti servono per volare, mica per altro».

Alcibiade ci pensò per un istante. «Mica ci ho mai riflettuto su sta cosa. Perché, lei riesce a volarci?». Il vecchio rise. Per dare una dimostrazione pratica di quanto affermava, posò il giornale sulla panchina e si librò in volo sulla testa di Alcibiade. Fece due o tre giravolte e si allungò, persino, a raccogliere il fiore di un mandorlo appena sbocciato.

«Vedi?» disse ritornando con i piedi per terra. «Anche tu lo puoi fare. Se ti serve una mano posso insegnarti».

Ad Alcibiade non sembrò vero. Tutti i pomeriggi, da quel giorno, lui e il vecchio si incontrarono nel parco affinché imparasse a volare. La gente che li vedeva li prendeva per matti e si allontanava infastidita. Un vecchio e un ragazzo convinti di poter utilizzare le loro ali per volare! Bah.

In poco tempo, Alcibiade riuscì ad acquisire una discreta autonomia di planaggio. Era infervorato ed entusiasta. «Ecco, adesso sai volare. Però devi stare attento ai venti» gli
raccomandò il vecchio. «I venti tenteranno sempre di confonderti. Sono suscettibili e volubili, cambiano umore in base al colore delle nubi e, anche se te lo faranno credere, non soffieranno mai nella stessa direzione. Ora, aliteranno fiato caldo promettendoti di sorreggerti e accompagnarti nei vapori della primavera, l’attimo dopo si gireranno dall'altra parte perché saranno scocciati da niente e ti diranno una bugia solo per compiacerti, ma tu non riuscirai mai ad anticiparli. Hai capito, Alcibiade? Non fidarti mai dei venti. Perché nessun vento porterà con se lo stesso dolore di un essere umano con le ali».

Alcibiade fece cenno di aver capito, salutò e ringraziò il vecchio. In poco tempo, divenne il ragazzo con le ali di farfalla più bravo a volare al mondo. Certo, era anche, forse, l’unico, ma un merito è pur sempre un merito. Conobbe l’aria dei prati, il riverbero delle stagioni, il calore del sole e tutti i venti che giravano in natura. Si dimenticò, tuttavia, la raccomandazione del vecchio. A lui i venti piacevano, con le loro guance paffute e la spinta che gli regalavano per rotolarsi nel vuoto e andare in questa o quella direzione. Una mattina, un vento magico a cui si era particolarmente affezionato, gli suggerì di andare insieme a fare una scorrazzata sul mare. «Non saprei» tentennò Alcibiade. «Oggi c’è un bel mare grosso, rischiamo di caderci dentro e non risalire».

«Ma no» lo confortò il vento. «A me il mare non riuscirà a risucchiarmi, sono vento, io, mica paglia». I due amici si avviarono e in meno di niente furono sul mare che, quel giorno, era arrabbiato di brutto. Giocarono con le onde e chiacchierarono come sempre del più e del meno. Volare insieme ad un vento era l’esperienza più rilassante e piacevole che potesse esistere. Ad un certo punto, però, con tanto di sgomento per Alcibiade, il vento si voltò dall’altra parte. Il ragazzo pensò si stesse sentendo male o fosse in difficoltà.

«Vento, vento!» urlò. «Che ti succede? Perché non mi parli e non mi guardi più?».

Il vento sembrava veramente scocciato. «Senti, ragazzo, è arrivata l’ora che tu smuova quelle ali che ti ritrovi… Io non ho più voglia di starti a sentire».

«Ma come? Così, all’improvviso? Ti ho fatto qualcosa? Ti ho offeso in qualche modo…». Alcibiade non riuscì neppure a terminare che il suo amico vento era già volato via. Il mare lo afferrò per le ali di farfalla e lo seppellì sotto un ammasso d’acqua.

Alcibiade annaspò, lottò e pianse, più per la delusione di aver creduto in un’amicizia che per l’effettiva difficoltà di nuotare, tanto che gli abissi marini, alla fine, ne ebbero compassione e lo lasciarono libero. A fatica, il ragazzo arrancò sulla spiaggia. 

Ci volle parecchio tempo per guarire e riportare in sesto le ali sventrate. In un pomeriggio di sole, Alcibiade tornò a volare nel suo prato. Il vento che lo aveva lasciato sul mare si precipitò a salutarlo. «Caro il mio Alcibiade, ma dove ti eri cacciato? Mi hai fatto preoccupare…». Alcibiade sorrise ma proseguì oltre. «Dai, vieni, facciamo una volata insieme, sei più in forma che mai, come vanno le cose?» insistette il vento. Alcibiade si fermò, scrollò un po’ le ali e fece una carezza al vento. «Sei molto bello, caro vento, ma vedi, a volte tocca fare finta di nulla e andare per la propria strada. E’ proprio così: fare finta di nulla, spiegare le ali e volarsene via». 


Il vento non capì. I venti non capiscono mai. Sono sempre troppo impegnati a soffiare e a seguire la nube più luminosa per comprendere il messaggio di un essere umano che si porta dietro delle assurde ali di farfalla. Da quel momento, comunque, Alcibiade volò dove riteneva più giusto e senza farsi mai, mai, mai incantare ancora da un vento.


martedì 26 maggio 2020

L'Autore del blog accanto - MAURIZIO di CARTATADIRESCHE

Riprendo, dopo tanto, una delle mie rubriche più spensierate e affettuose: 

L'AUTORE DEL BLOG ACCANTO.     

Perché, come disse il mio amico Moz, ci aggiriamo nei meandri del web nella gran parte anonimi e sconosciuti al successo di massa, ma, alla fine, l'universo dei blog è composto da ciascuno di noi. E dietro a chi scrive, dietro a chi ogni giorno si prende la briga di lasciare un pezzetto di sé in contenuti di vario genere e interazioni, c'è sempre qualcuno di speciale.  

C'è pure chi è un autore vero e proprio, perché ha tentato la via della pubblicazione, oppure, semplicemente, perché  è diventato un autore a tutti gli effetti per gli utenti che lo leggono.

Oggi ospito un poeta. E un fotografo. Non so cosa si senta di più. Suppongo, imprescindibilmente, entrambi.  

Il suo blog è CARTATADIRESCHE. Lui è Maurizio

Non ricordo come sono approdata nel suo angolo. Di sicuro sono rimasta affascinata dai grumi intensi di parole  che quotidianamente Maurizio alterna ai suoi scatti che immortalano scorci di appassionato amore per il mondo, in tutte le sue sfumature. 
Soprattutto, mi hanno colpito la semplicità, la discrezione, la bontà d'animo, la spiccata sensibilità che trapelano dalla maniera garbata di porsi.

Leggo, ormai, Maurizio da qualche anno, tra le varie latitanze e i periodi in cui bazzico appena. Ma, finalmente, riesco a dedicargli questa piccola intervista.

Ciao Maurizio, tu sei uno dei blogger più discreti che io abbia avuto modo di incrociare. Sono felicissima di averti qui e di poterti fare qualche domanda. Iniziamo.
 Perché scrivi?

Scrivo per raccontarmi la vita che vivo, che mi gira attorno ogni giorno. Scrivo da sempre e trovo che colorare con le parole le nuvole di un cielo di mille emozioni è sempre qualcosa di meraviglioso.


Cosa speri gli altri leggano tra le righe?

Leggere è un po come sognare. 
Se poi alla lettura si unisce l'interpretazione attraverso una fotografia, un suono o un colore, allora si possono anche ritrovare quelle emozioni che sono rimaste dentro come chiuse in un cassetto.  
Le emozioni che io provo a donare, con la stessa semplicità e dolcezza con cui si donerebbero dei fiori di campo, vorrei fossero raccolte, da coloro che ne sono capaci, come emozioni pure, vere, sincere. Un pò come ritrovare qualcosa che si è perso e  che inavvertitamente, toccando il cuore, riesci a sentire, riesci a dividere e condividere nella buona e nella cattiva sorte. 
Spero tanto di poter donare quel sorriso, a volte disperso, a volte dimenticato, a volte rubato che spesso manca in Noi, attorno a Noi, dentro di Noi.


Cartatadiresche: ovvero? 

Il titolo a questa emozione, iniziata nel maggio 2008, nasce da ciò che dalle nostre parti - in Sicilia -, è lo scarto per eccellenza: un foglio di giornale dove avvolgere le lische dei pesci da buttare. 
Lo spazio mi è stato regalato, quasi per scommessa, da un amico carissimo, per me più di un fratello nonché  ottimo fotoreporter: Toti Clemente. E' stato lui a spingermi in questa straordinaria avventura riconoscendo in me delle capacità comunicative. Ho incominciato dal basso ed ho iniziato a volare sul sogno,  costruendo ogni giorno, con modestia, semplicità e amore, gradini di consenso in un cielo, in realtà, mai cercato. I numeri poi non hanno molta importanza, un sorriso sì.


Dove e cosa ti vedi a fare tra 10 anni?

Non so cosa mi riservi il mio modo di vivere negli anni a venire. So che continuerò ad amare la fotografia come ho fatto per una vita, con la giusta attenzione per il bianco e nero che spesso, molto spesso, dimentico.  
Ma mi vedo anche a giocare divertito con i miei nipotini e a dir loro che la vita è una fotografia che resterà per sempre.


E io concludo ringraziando Maurizio e lasciando una traccia di lui. Anzi, due!
Due, tra le mie preferite.

"Addestro fumo per non modificare il silenzio.
Tu che ritorni a risplendere
come qualcosa che persa ritrovi
come quel granello di sabbia che neppure vedi
eppure trovi dove curvano i desideri e mesti
rientrano le onde appannate dal tuo sorriso."

dal bolg CARTATADIRESCHE AVMpress 2020 © Riservato ogni diritto e utilizzo


Maurizio Anselmo - "Uno nessuno centomila"


Gli atri Autori del blog accanto: