42.
E non è tanto il discorso dell’età. Se me li sento, questi 42 anni, oppure no; se li ho vissuti tutti quanti per bene o se ho più rimpianti che soddisfazioni.
Oggi compio 42 anni. E sono una ragazza felice.
Non sono ricca, non sono famosa, non ho sposato Brad Pitt, non ho fatto il giro del mondo in 80 giorni, non ho messo al mondo due bambini prodigio. Ma sono felice. Addirittura, mi piaccio. Mi piace la me che mi saluta dallo specchio e che ha sempre provato ad abbozzare a un sorriso. Persino quando di sorridere non c’era una beneamata minchia.
Il punto è che oggi compio 42 anni e, per la prima volta, mi sento scardinata dai ricordi.
Sono cresciuta in una famiglia numerosa. Io e mia madre siamo fuggite da un padre padrone e siamo andate ad installarci nell’unico nido in cui si covava amore: la casa dei nonni. Ho avuto per compagni di giochi mani accartocciate dalle artrosi e occhi annacquati da una vita già vissuta: un nugolo di anziani che mi ha fatto dono dell’ultima manciata di respiri e della saggezza di apprezzare le cose per come accadono. Perché quando hai vissuto tanto e discretamente, la vita a ritroso ti appare in tutta la sua lineare semplicità e non puoi fare altro se non tifare per chi verrà dopo, ammaccando le paure e infondendo la forza necessaria a sfidare il destino.
"La vita non è quello che sembra, picciridda. E’ molto di più. Il dolore passa, del dolore ci si dimentica. Quello che rimane è il coraggio di compiere le cose; tutte quante le cose che ti suggerisce il cuore”.
10 anziani appartenenti a differenti generazioni,
+ 3 adulti
+ io piccina:
= 14 persone in un’unica casa.
E’ stato il numero esagerato a fregarmi.
Per tanto tempo non ho compreso dove stava l’inghippo. Per diversi anni non mi sono figurata il vuoto che sarebbe sopraggiunto.
Fino a qualche mese fa, non avrei mai neppure scommesso sull’eco del silenzio che, oggi, mi rimbomba nello sbigottimento dello sguardo.
Il giorno del mio compleanno, facevano a gara per raccontare.
Mia madre aveva saputo della mia esistenza la sera del 16 ottobre del 1978: nello stesso istante in cui la tv aveva trasmesso la fumata bianca ed era stato annunciato il nuovo papa, lei aveva avuto un mancamento.
Ci si era prodigati in conti approssimativi. Non era possibile che mia mamma fosse incinta: nelle ultime settimane aveva subito un aborto a causa delle percosse del marito; da quel momento era stata a riposo e le mestruazioni non le erano più tornate.
“Magari erano due e uno si è salvato,” aveva detto la vecchia levatrice. La nonna e la prozia avevano annuito serie: ero il gemello cazzuto, quello che aveva resistito aggrappato come una cozza allo scoglio. D’altronde, mi ero emozionata all’annuncio di Wojtyła, mica robetta.
Nessuno, però, era stato in grado di stabilire quando sarei dovuta nascere. Non prima della fine di maggio, aveva decretato il dottore dell’ospedale. Quando vorrà dio, avevano sentenziato i miei anziani.
E dio si era segnato sull’agenda che il 19 aprile poteva andare bene, ma, preso come sempre da affari più urgenti, si era dimenticato di farmi mettere in posizione.
Così, la sera in cui mia mamma era stata assalita dalle contrazioni e mio padre si era dileguato perché quelle cose da femmina lo infastidivano, il timido dottorino alle prime armi aveva parlato direttamente con la nonna che lo aveva guardato carica di compassione.
“Senta signora, qui la situazione è complicata. Il bambino punta i piedi invece che la testa e per il Cesario non siamo attrezzati”.
Povero figlio, aveva pensato nonna Montagna, mettere in mano a un maschio, peraltro tanto giovane, le faccende delle partorienti. Lo diceva lei che a lasciar fare agli uomini si perdeva tempo e fatica. Si era limitata a rispondere che dovevano infilare una mano e girare la creatura e che lei avrebbe dovuto assistere al parto.
Il giovane medico si era grattato la testa e aveva acconsentito.
La nonna lo giurava e lo sacramentava: la prima cosa che di me aveva visto era stato un piede sghembo e tumefatto che veniva fuori dalla vagina di mia madre. Un increscioso ricordo, a ben vedere, ma, da piccola, al mio compleanno, la nonna si prendeva quello stesso piede e me lo baciava mentre raccontava.
“È così che sei sbucata alla luce, prima con i piedi e dopo con la testa. Eri viola, strapazzata e con gli occhi neri e spalancati come quelli di una trota. Ma eri bella e grossa, e come lo guardavi al dottore, come a uno a cui si deve la pellaccia, tanto che lui stesso ti prese e disse: “Mi hai fatto penare, ma porterai fortuna a me e alla tua famiglia…”.
Quello stesso dottore l’ho rivisto anni dopo, da adulta, in un ospedale a Messina. Ero alla mia prima gravidanza e avevo trangugiato un chilo di focaccia messinese con tanta scarola e una dose doppia di pepe nero. Ero finita al pronto soccorso di ginecologia a causa delle fitte insopportabili alla pancia. A nulla erano valsi i tentativi di spiegare che fosse più un’indigestione che una minaccia d’aborto: mi avevano ricoverato per qualche giorno e, in quel frangente, avevo letto il nome sul cartellino del primario ed ero trasalita.
Era lui lo stesso dottor C.F. che alla fine degli anni ’70 si stava specializzando in un piccolo paese della profonda Calabria e il cui nome era risuonato di bocca in bocca ai miei parenti oramai decimati?
Era lui.
Niente di meno rammentava, come in un sogno. Perché quella in cui io ero nata era stata la prima settimana della sua carriera e l’inizio non era sembrato dei migliori.
A pensarci adesso, mi sento una miracolata. Per quell’incontro fortuito che ha chiuso il cerchio di una leggenda oramai consolidata.
A pensarci adesso, mi sento fortunata. Per quel coro di voci miste che mi sussurra all'orecchio dell’anima: Te la ricordi quella giornata? Ah, quante volte te l’abbiamo raccontata.