martedì 27 luglio 2021

Buone Vacanze! - dal Sud

Chi non si è mai spostato, o chi lo ha fatto per poco, non potrà mai rendersene conto. Di come si vive la vita al Sud. 

Il Sud bistrattato e punito; spesso rinnegato, pugnalato, straziato; che fa sangue da ogni taglio, da ogni piaga che lo affligge. Il Sud con le sventure che non passano; che si alleviano, forse, ma non passano: la mala sanità, la corruzione, il degrado, la disoccupazione, la criminalità organizzata, lo spirito rassegnato di chi il Sud tenta di trascinarselo a spalla come un figlio che accompagna la madre ferita, con lo stesso orgoglio, la stessa fierezza, la stessa generosa apprensione. 

Quanta bella gente è il Sud, quanta preziosità d’animo.

Chi c’è dentro non lo vede. Non vede che al Sud ti rimane meno tempo per sentirti infelice. È un paradosso, il tratteggio di un profilo che metti a fuoco solo se lo guardi da lontano. Lo vedo io, che torno una volta o al massimo due all’anno. Al Sud, lontano dalla solitudine asfissiante del traffico metropolitano, dagli sguardi assenti sui mezzi pubblici, dalla corse affannose per arrivare puntuali, dai giochi di prestigio per far quadrare la quotidianità, la famiglia, i figli, le piccole cose. 
 
Il valore di ciò che possediamo siamo in grado di valutarlo solo quando non ce l’abbiamo più. È la natura umana, volubile e instancabilmente inquieta.

E allora, quando torno, il tempo di dilata, si centuplica, ne avanza, me lo arrotolo tra le dita, nei pensieri. Ma non è un tempo affannoso, inconsistente, svuotato.

È un tempo fatto di risvegli carichi di luce, di sorrisi per strada, di vento tra gli alberi, di come stai, quanto ti fermi, come vanno le cose, di mani tese, di carezze ai bambini, di doni passati dalla finestra, un dolce, le uova fresche, le zucchine, le melanzane, i peperoni dell’orto, di una telefonata, ci vediamo, vieni a cena, prendiamoci un caffè, se hai bisogno di qualcosa non farti problemi a chiedere... 

Il Sud con il suo proverbiale altruismo, con le chiacchiere regalate a cuor leggero, senza ripensamenti, senza lo gogna del facciamo tardi. Il Sud povero ma ricco. Ricchissimo. Che trabocca di quella umanità di cui stiamo imparando a fare a meno. Che colma di un senso di pienezza le giornate che si allungano, sì, si allungano, come fossero due, tre giorni incastrati insieme, ma privi della stanchezza di sorridere ancora. 

Sono al Sud, lo avrete capito, era solo per augurarvi BUONE VACANZE, amici. Assai buone, per quanto possibile. Con tanto tanto, tanto affetto.

Lungomare di Reggio Calabria - estate 2021

martedì 1 giugno 2021

Vivere la vita

Vivere la vita è una cosa veramente grossa, c'è tutto il mondo fra la culla e la fossa. Sei partito da un piccolo porto dove la sete era tanta e il fiasco era corto e adesso vivi, perché non avrai niente di meglio da fare
finché non sarai morto.


La vita è la più grande ubriacatura, mentre stai bevendo intorno a te tutto gira e incontri un sacco di gente, ma quando passerà non ti ricorderai più niente.

Ma non avere paura, qualcun' altro si ricorderà di te: la questione è... perché?
Perché ha qualcosa che gli hai regalato, oppure avevi un debito e non l'hai pagato?
Non c'è cosa peggiore del talento sprecato, non c'è cosa più triste di un padre che non ha amato.

Vivere la vita è come fare un grosso girotondo, c'è il momento di stare sù e quello di cadere giù nel fondo;
e allora avrai paura, perché a quella notte non eri pronto.
Al mattino ti rialzerai sulle tue gambe e sarai l'uomo più forte del mondo.

Puoi cambiare camicia se ne hai voglia, e se hai fiducia puoi cambiare scarpe, con scarpe nuove puoi cambiare strada, e cambiando strada puoi cambiare idee, e con le idee si cambia il mondo.

Ma il mondo non cambia spesso, allora la tua vera rivoluzione sarà cambiare te stesso.

Eccoti, sulla tua barchetta di giornale che sfidi le onde della radiotelevisione. Eccoti, nel tuo monolocale che scrivi una canzone. Eccoti, lungo la statale che dai un bel pugno a uno sfruttatore. Eccoti, in guerra nel deserto che stai per disertare. E adesso... eccoti sul letto che non ti vuoi più alzare e ti lamenti dei governi e della crisi generale.

Posso dirti una cosa da bambino?
Esci di casa, sorrdi, respira forte!
Sei vivo, cretino.

#unacanzonepercaso



attenzione: #unacanzonepercaso può nuocere gravemente alla salute

 o perché non l'hai capita e ti sei incazzato con me per averti fatto credere che stavo farneticando su un dato argomento, 

 o perché, nonostante tu mi ci abbia mandato, il significato del testo che ho riportato ti ha stuzzicato e ti è venuta la voglia compulsiva di riascoltare, 

 o perché non te ne fregava effettivamente un cazzo ma siccome mi leggi e mi vuoi bene, ti ritrovi a dover lasciare comunque due parole di conforto, che non sai neppure tu quali possono essere, sui miei vari vagheggiamenti.

Io, ad ogni modo, te l'ho detto. Poi fai te.

giovedì 20 maggio 2021

Io ho una mia teoria sulla morte

O per meglio dire, sulla vita dopo la vita. Per essere più precisi: sulla possibilità della prosecuzione dell’esistenza dopo il capolinea del vivere - per come noi lo intendiamo.

Lo so che arriva il caldo. Che l’estate è alle porte. Che dovrei scrivere di ormoni che si risvegliano, di coprifuochi smussati e di costumi.

Ma io, da meno di un anno a questa parte, un paio di domandine in più sulla morte ho iniziato a farmele. Con serenità. Senza scomodare nessun dio e nessuna religione. Che se solo continuassi a credere in un dio o in una qualsiasi forma di religione sarei profondamente incazzata:

a- col dio in questione, il quale, a questo punto, mi risulterebbe fortemente indigesto e alla stregua di un farabutto;

 b- con la religione a cui fare riferimento che, come proseguo del dio da cui assume la sostanza, ad altro non potrebbe somigliare se non ad una istituzione divina inneggiante alle atrocità e alle ingiustizie ma con la regola inviolabile di tenere botta, in nome di una ipotetica ricompensa che prima o poi arriverà.


Ecco, io ho deciso di tenere botta. Ma privandomi del piacere di chiamare in causa terzi incomodi.

Amen.

Ma che fine facciamo quando moriamo? Dove sono i miliardi di morti che hanno lasciato questo mondo per l’altro? Come la gestiscono nell’aldilà la sovrappopolazione?

A me, ovviamente, di dove pascoli in pace, ad esempio, l’anima di Napoleone Bonaparte non è che me ne freghi nulla. Per dirne uno. Però mi chiedo dove siano mia madre e mia nonna scomparse da poco. Mi domando perché non si facciano sentire in qualche modo, perché non mi inviino un qualsiasi segnale decodificabile.

In effetti, pensateci: se i morti potessero intervenire nella vita di chi rimane, si scatenerebbe un grande putiferio: morti ammazzati che si vendicherebbero sugli assassini rimasti, genitori che aiuterebbero concretamente i figli, figli che supporterebbero concretamente i genitori, dritte da nonni e parenti su come svoltare… Insomma, male male non sarebbe.

Tuttavia, è indubbio che, una volta morti, dei morti non rimane traccia se non nei nostri cuori e nel ricordo amorevole che riusciamo a perpetrare di loro nel tempo.

Proprio ieri, parlando con tre cari amici, dicevo che spesso mi capita di fantasticare su quanto sarebbe divertente assistere allo scazzottamento invisibile, che ne so, di mia madre che mette al tappeto mio marito quando mi fa andare fuori dai gangheri e lui che, stupitissimo, non si capacita di cosa sia accaduto.

La verità è che spesso mi capita di ripensare alle parole di una donna che ho conosciuto durante gli ultimi giorni di mia madre proprio all’interno della struttura per malati terminali dove lei era ricoverata. Di quella donna non ricordo il nome, ma rammento la sua espressione serena e quello che mi disse pur trovandosi nella mia stessa situazione:

«Vedi, tutti noi sprigioniamo un circuito d’energia. Quando il nostro corpo si spegne, l’anima continua a mandare vibrazioni. Inizialmente un po’ più forti, poi sempre meno percepibili. Ma l’energia dell’anima continua a circolare in un processo infinito che ci accompagna per tutta la vita e al quale prima o poi ci ricongiungeremo».

Non le diedi molta retta all’epoca, ma di recente mi è capitato di ripensare alla domenica di novembre in cui tornai a casa dopo i funerali di mamma. 

Mi ero portata appresso le melanzane affettate, fritte e surgelate che all’inizio di ogni autunno lei mi preparava con amore affinché, in pieno inverno, io potessi cucinare a Roma la parmigiana al forno. Lo aveva fatto anche lo scorso settembre; avevo trovato nel congelatore le bustine porzionate ed etichettate con cura.

Quella domenica ne avevo tirato fuori dalla borsa frigo una busta e le avevo buttate di mala voglia in un approssimativo sugo, giusto perché il frigo era vuoto da settimane. Le altre le avevo conservate. 

Ero molto incavolata. «Certo, mamma, che te le potevi risparmiare le melanzane se poi te ne dovevi andare così… Tanto la parmigiana non ce la faccio. Anzi, non ci faccio più neppure il sugo, non le voglio le tue melanzane se tu non ci sei…». 
E, all’improvviso, mentre pronunciavo quelle ultime parole, il coperchio in vetro della pentola si è frantumato. Non è esploso mandando in giro i pezzi, si è solo letteralmente frantumato rimanendo comunque integro; tanto che, quando ho fatto per prenderlo, è venuta via solo la parte in plastica che reggeva il manico.

Chi mi avrebbe creduto? 

L'ho fotografato. 



Ora, io non so se quello del coperchio sia stato un caso fortuito. Se pure gli oggetti di casa mia erano stressati e stremati dal periodo. Certo è che io utilizzo da circa un ventennio una batteria di pentole con i coperchi in vetro e quella roba lì non è mai successa; né prima, né dopo la fantomatica domenica.

Certo è anche il fatto che, con le melanzane fritte di mia madre, ci abbia preparato in seguito solo e soltanto parmigiane al forno.

Certo è pure che mi piacerebbe tantissimo che mamma mi comunicasse tre o quattro numeri buoni da giocare al lotto, che spartisse come Mosè le acque sul raccordo quando ci sono io a percorrerlo, che volasse a mo’ di scudo protettivo ovunque camminano i miei figli, che prendesse a bruciapelo a sberle – SCIAFF SCIAFF - mio marito o chiunque altro mi faccia incazzare e senza che io mi scomodi a spiegare il perché, ma la mia teoria sulla morte è che magari quella donna avesse ragione: l’energia delle anime non smette di circolare, in un processo infinito che ci accompagna per tutta la vita e al quale prima o poi ci ricongiungeremo.

Spero. 

Ci voglio credere. 

E mi piace di più di qualsiasi paradiso.


sabato 8 maggio 2021

Baciami ancora - Perché a me la politically correct me le ha frantumate

Va bene, ne hanno parlato tutti. Voglio parlarne pure io. Mi perdonerete. E se non lo fate, vi perdonerò io: che io son buona.


Sta storia delle favole. Dumbo, Gli Aristogatti, Cenerontola e adesso Biancaneve.

Il principe è stato uno stronzo: non si bacia una ragazza avvelenata dalla mela senza il suo consenso.

È difficile capire perché la Disneyland del 2021 scelga di aggiungere una scena con idee così antiquate su ciò che un uomo è autorizzato a fare a una donna. Perché non re-immaginare un finale in linea con lo spirito del film?”.

Già, perché? 

E dire che i fratelli Grimm, previgenti, una mezza salvata l’avevano buttata lì

nella versione originale della favola, il principe arriva un po’ meno testosteronizzato, contratta coi nani per portarsi via la finta morta e si prefigge solo di continuare a guardarsela in santa pace nella quiete del suo castello -scoptofilo di un principe! Come la metti la metti, sempre un abusatore rimane. Un nano, tuttavia, nello spostare la bara di cristallo, inciampa; nel trambusto, Biancaneve finalmente sputa fuori il pezzo di mela avvelenata e si innamora seduta stante del gran pezzo d’uomo che indirettamente l’ha salvata – pure sta Biancaneve, però, che la dà al primo che arriva, mica si fa così.

Che dire: io continuo a preferire la versione romantica del bacio a bruciapelo. Sarà che sono un’inguaribile romantica, sarà che all’asilo lo Gnomo interpretò il principe ed era emozionatissimo di salvare con un bacio le penne a Neve tanto che mi fece piangere, sarà che tutta sta politically correct, a me, le ha frantumate.

Tutti a decantare la libertà di pensiero, tutti a dire che siamo liberi, che nessuno si deve permettere di impelagarci in determinati schemi mentali, e poi non sei neppure padrone di avere una preferenza sul finale di una favola.

La verità è che non si è più liberi di esprimere un pensiero o un giudizio su qualsivoglia argomento senza che sbuchi fuori il politicamente corretto di turno.

Facciamo alcuni esempi - tratti da esperienze di vita vera.

  • Se a scuola, mio figlio ne infastidisce pesantemente un altro e la mamma dell’infastidito si viene a lamentare con me o con le maestre chiedendo che vengano presi provvedimenti, quella è semplicemente una mamma preoccupata e mio figlio è un maleducato che va comunque redarguito.                    Se mio figlio viene pesantemente infastidito, poniamo, dal compagno di colore ed io vado dalla madre o dalle maestre a lamentarmi e a chiedere che vengano presi provvedimenti, io sono razzista. Ebbene, sì, io sono razzista. Perché quello, poverino, proviene da un’altra cultura ed io devo comprendere che, pur trovandosi in Italia da quattordici generazioni, si deve adeguare.

  • Se io porto i miei bambini al parco e c’è un cane che scorrazza libero abbaiando e incutendo timore ad infanti e genitori e viene chiesto cortesemente al proprietario di tenerlo al guinzaglio per il benestare di tutti – come da legge -, il richiedente è uno schifoso anti-animalista. Perché il cane deve essere libero di abbaiare a chi gli pare e i bambini possono pure parcheggiarsi davanti alla televisione e non andare a inquinare l’habitat del migliore amico dell’uomo che, se solo avesse la parola, smadonerrebbe pure lui davanti agli infimi livelli di ragionamento che l’uomo stesso ha raggiunto.

  • Se io vado al ristorante e ordino una bistecca e, mentre felice e compiaciuta me la mangio, il vegano-vegetariano-ononsocomealtrosidice, seduto per sfiga accanto al mio tavolo, mi guarda con disgusto e borbotta che appartengo alla mostruosa razza dei cannibali, io devo tenere botta e fare finta di nulla; se io, sbirciando i germogli di soia o il tofu, che il mio vicino vegano-vegetariano-ononsocomealtrosidice sta mangiando come portata principale, dico apertamente che non mi sognerei mai – io! mica lui! - di seguire un’alimentazione del genere, allora io sono una intollerante.

  • Se io possiedo un appezzamento di terreno e decido di assumere un aiutante, e lo voglio uomo, fisicamente resistente e che sappia portare il trattore, io sono una maschilista; se io sto cercando una baby-sitter e la voglio donna, femmina in tutti i sensi, per questioni mie di cui non devo dare giustificazione a nessuno, escludendo il sesso maschile inclusi gli omosessuali, io sono una omofoba.

Potrei continuare ancora per un pezzo. Ma preferisco fermarmi qui.

Viviamo un’epoca di estremismi. È questo il male. Si è perso il senso dell’equilibrio, della leggerezza, del buon senso, dell’apertura mentale. L’opulenza ci ha rallentato le sinapsi; l’agiatezza ci ha fatto perdere il senso delle priorità.

Io non sono razzista. Per quanto mi riguarda, non dovrebbero esistere confini. L’altro è me, ed io sono l’altro. La supremazia dei popoli, le strategie dei potenti, lo sfruttamento dei paesi più deboli, andrebbero combattuti senza mezzi termini nella totale compattezza di animi e cuori. Ma se un bambino nero, giallo, arancio, fucsia o verde ne picchia un altro, poco mi frega del colore della sua pelle: quel bambino deve essere educato a non ricorrere alla violenza.
Così come uno stupratore, un ladro, un criminale è sempre tale a prescindere dalla sua nazionalità o dalla sua collocazione geografica.

Io amo gli animali, tutti, indistintamente. Nel senso che li rispetto, detesto la violenza gratuita su di essi ed è capitato che mettessi a repentaglio la mia vita e quella della mia famiglia per tirare via un husky abbandonato sulla tangenziale (che poi nessuna associazione di animalari voleva venire a prendere). Però, ad esempio, pur rispettando le preferenze di ciascuno, io, e dico io!, non dormirei mai con il mio cane, né mi sognerei di farmi slinguazzare in bocca cinguettando: Oh, Fido, la mamma è tornata
Non concepisco come ci si possa piazzare in casa o portare a spasso maiali e pecore da compagnia (una volta giuro di aver visto una tizia con una pecora col pannolino al guinzaglio! Sono rimasta basita – specie per il pannolino: ho pensato alla pecora costretta a cacarsi addosso, poveraccia). 
E, ancor di più, non mi capacito di come si faccia a gioire in nome dell’amore per gli animali, della morte di qualcun altro. Mi è capitato mesi fa: un post sui social in cui si annunciava la morte di un giovane ragazzo caduto da un burrone mentre era a caccia e, sotto, centinaia di commenti di questi signori, che si reputano addirittura più sensibili, più empatici e più intelligenti degli altri, in cui veniva espressa con parole ingiuriose e dissacranti “l’immensa gioia” per quella vita spezzata. Ora, per quanto mi riguarda, la caccia potrebbe anche essere abolita - per il nutrimento sarebbero sufficienti gli allevamenti -, ma va fatto salvo che la sua pratica affonda le radici nella storia dell’uomo e che la sua attività continua ad essere regolata dalla legge anche per il monitoraggio delle specie – dunque, praticare la caccia è legale, e far sapere alla mamma di un cacciatore che sei felice perché suo figlio è morto non ti rende una persona migliore, bensì un povero e triste omuncolo che dovrebbe rivedere per intero i suoi meccanismi di crescita.

E, poi, sarò libera di mangiare quel che più ritengo idoneo al mio gusto e alla mia salute? Io sono onnivora. Adoro le bistecche, le cosce di pollo arrosto, i fegatelli in salsa e la soppressata. Sarò libera di gridarlo ai quattro venti o di giudicare folle il gesto di quei genitori che costringono i loro piccoli a nutrirsi malamente di sola erba o lenticchie senza essere linciata? Ammazzatevi da soli, ciascuno è responsabile di se stesso, al massimo argomentate: ma l’imposizione non può o non deve essere contemplata.

Infine, se mai una strega cattiva mi avvelenasse con una mela, e, tu, Principe, ti trovassi fortunatamente a passare, ti prego, baciami! Baciami e baciami ancora e ancora. Persino nel caso in cui la mia auto-certificazione di consenso non ti fosse arrivata in tempo.





mercoledì 28 aprile 2021

100%

La primavera quest’anno ha bucato l’appuntamento. E ha fatto bene, tanto, come la fa la fa, non siamo mai contenti. 

Hafattounfreddodellamadonna

Ad aprile. 

Oggi piove. Non sai neppure come vestirli sti ragazzini. Felpa sì, felpa no. L’importante è che non si ammalino, che poi alla prima smocciolata ti chiamano da scuola e ti fanno sentire come se avessi portato in giro un terrorista dell’ISIS pronto a farsi saltare in aria.

Passerà. A Roma ci sveglieremo una mattina e sfiateremo sotto al sole di mezzogiorno imprecando come orsi polari nel deserto. L’estate quando arriva arriva: sticazzi se il giorno prima faceva 7 gradi.

Intanto, l’esaurimento galoppa. Siamo tutti esauriti, chi più, chi meno. L’anno scorso almeno avevamo cantato e ballato sui balconi; quest’anno i balconi li frantumeremmo a mazzate. Chi rompe paga - con soddisfazione, se non altro - e i cocci tutti in testa a quella di sotto che mentre eravamo in DAD pretendeva che non si facesse un fiato PERCHE’-LEI-LA-MATTINA-FA-YOGA. 
Beata! che ha ancora voglia di yoghizzarsi, che si gode la pensione maturata in altri tempi e che ha conservato la forza di rompere i maroni al prossimo gravato dalla sottovalutata disgrazia di possedere una prole in età scolastica ai tempi del virus.

La crostata con la nutella che ti portai a Natale doveva andarti di traverso, st…oica di una vicina!

Che siamo esauriti l’ho seriamente capito negli ultimi giorni. A scuola dei miei figli pare ci sia uno psicolabile che si diverte a disseminare viti e chiodi arrugginiti nei pasti somministrati ai bambini. S’è alzato un polverone senza precedenti. E a ragion veduta. I carabinieri sono andati nei locali della ditta che gestisce la mensa e li hanno rivoltati come calzini: non s’è trovato né una causa, né un responsabile. In attesa di altre indagini, la mensa rimane aperta. Tuttavia, il dirigente ha dato la possibilità alle famiglie di scegliere il pasto domestico: ma, attenzione!, attenzione!, le mamme della scuola dell’infanzia vi hanno aderito in minima percentuale.

Siamo proprio esauriti: se preferiamo far rischiare la salute ai nostri figli piuttosto che organizzare un pasto da casa o ribellarci ad uno stato di cose talmente approssimativo, la pandemia c’ha mandato in confusione il cervello.

Che siamo esauriti me l’ha confermato anche la mia amica T. 

T. non la incontravo da mesi. Ieri l’ho beccata al supermercato. L’ho vista aggirarsi in mezzo agli scaffali dei cereali e sbiascicare sotto la mascherina perché s’erano fatti fuori tutti i Choco Krave. Non ero sicura fosse lei: per meglio dire, le movenze, quella maniera inconfondibile di piegare il ginocchio quando si innervosisce, i riflessi biondo cenere dei capelli, con - in verità - almeno quattro dita di ricrescita rispetto al solito, e l’accento a metà tra il ciociaro e il burino spinto erano i suoi, ma qualcosa nel suo avanzare a scatti me la rendeva estranea.

«T.! Porca miseria, da quanto tempo! Come va, come state?»

«Ah, bella! Penzavo te fossi morta…»

Ha sorriso con gli occhi vispi e ha toccato il ferro dello scaffale più vicino: sia mai che lo scongiuro non arrivasse in tempo a salvarmi da una probabile dipartita.

«Eh, come stamo,» ha proseguito «stamo fuori con l’accuso, cara mia, che te lo dico a fare… Sempre chiusi a lavorà da casa, come le pecore dentro a’na gabbia, che se fossimo pecore ce farebbero senz’altro andare ar pascolo… Che poi li vedi? Tutti a piagne miseria, tutti in cassa integrazione, e poi se magnano i cereali più cari…»

Ho sghignazzato. Come te le racconta T., nessuno al mondo.

Solo che, mentre parlava, scattava. Piccoli e ripetuti scatti principalmente indirizzati alla metà inferiore del corpo: a destra, a sinistra, avanti e indietro.

Mi è venuto naturale chiederglielo: «T., ma che c’hai?»

«E che c’ho, che c’ho…» ha detto ballonzolando da una parte all’altra. «C’ho che mi scappa. E nessuno me la fa fare! Sono andata al bar di fronte, al bar di dietro, ai bagni pubblici del centro commerciale… Niente, al gabinetto non ci si può più andare: indipendentemente dall’arcobaleno di turno. Ai tempi der Covid se soffri de vescica lenta te tocca attrezzatte…»

Le ho lanciato un’occhiata carica d’affetto. L’unico gesto amichevole che possiamo concederci di questi tempi (io a strofinare i gomiti non ci penso proprio!).

« Che ditte... me ne vado, che io qua non la tengo più...E ricorda, cara mia, imprimitelo bene: siamo tutti esauriti. Tutti, eh! Tutti quanti. Me credi?»

«Certo che ti credo, T. Perché non dovrei?»

«Ma tutti, tutti tutti, al 100%, tutti esauriti!»

«Assolutamente!»

«Tutti, tutti esauriti! Al 100%»

E se n'è andata.



lunedì 19 aprile 2021

Quarantadue

Quarantadue. Oggi.

42.

E non è tanto il discorso dell’età. Se me li sento, questi 42 anni, oppure no; se li ho vissuti tutti quanti per bene o se ho più rimpianti che soddisfazioni.

Oggi compio 42 anni. E sono una ragazza felice.

Non sono ricca, non sono famosa, non ho sposato Brad Pitt, non ho fatto il giro del mondo in 80 giorni, non ho messo al mondo due bambini prodigio. Ma sono felice. Addirittura, mi piaccio. Mi piace la me che mi saluta dallo specchio e che ha sempre provato ad abbozzare a un sorriso. Persino quando di sorridere non c’era una beneamata minchia.

Il punto è che oggi compio 42 anni e, per la prima volta, mi sento scardinata dai ricordi.

Sono cresciuta in una famiglia numerosa. Io e mia madre siamo fuggite da un padre padrone e siamo andate ad installarci nell’unico nido in cui si covava amore: la casa dei nonni. Ho avuto per compagni di giochi mani accartocciate dalle artrosi e occhi annacquati da una vita già vissuta: un nugolo di anziani che mi ha fatto dono dell’ultima manciata di respiri e della saggezza di apprezzare le cose per come accadono. Perché quando hai vissuto tanto e discretamente, la vita a ritroso ti appare in tutta la sua lineare semplicità e non puoi fare altro se non tifare per chi verrà dopo, ammaccando le paure e infondendo la forza necessaria a sfidare il destino.

"La vita non è quello che sembra, picciridda. E’ molto di più. Il dolore passa, del dolore ci si dimentica. Quello che rimane è il coraggio di compiere le cose; tutte quante le cose che ti suggerisce il cuore”.

10 anziani appartenenti a differenti generazioni,

+ 3 adulti

+ io piccina:

= 14 persone in un’unica casa.

E’ stato il numero esagerato a fregarmi.

Per tanto tempo non ho compreso dove stava l’inghippo. Per diversi anni non mi sono figurata il vuoto che sarebbe sopraggiunto.

Fino a qualche mese fa, non avrei mai neppure scommesso sull’eco del silenzio che, oggi, mi rimbomba nello sbigottimento dello sguardo.

Il giorno del mio compleanno, facevano a gara per raccontare.

Mia madre aveva saputo della mia esistenza la sera del 16 ottobre del 1978: nello stesso istante in cui la tv aveva trasmesso la fumata bianca ed era stato annunciato il nuovo papa, lei aveva avuto un mancamento.

Ci si era prodigati in conti approssimativi. Non era possibile che mia mamma fosse incinta: nelle ultime settimane aveva subito un aborto a causa delle percosse del marito; da quel momento era stata a riposo e le mestruazioni non le erano più tornate.

“Magari erano due e uno si è salvato,” aveva detto la vecchia levatrice. La nonna e la prozia avevano annuito serie: ero il gemello cazzuto, quello che aveva resistito aggrappato come una cozza allo scoglio. D’altronde, mi ero emozionata all’annuncio di Wojtyła, mica robetta.

Nessuno, però, era stato in grado di stabilire quando sarei dovuta nascere. Non prima della fine di maggio, aveva decretato il dottore dell’ospedale. Quando vorrà dio, avevano sentenziato i miei anziani.

E dio si era segnato sull’agenda che il 19 aprile poteva andare bene, ma, preso come sempre da affari più urgenti, si era dimenticato di farmi mettere in posizione.

Così, la sera in cui mia mamma era stata assalita dalle contrazioni e mio padre si era dileguato perché quelle cose da femmina lo infastidivano, il timido dottorino alle prime armi aveva parlato direttamente con la nonna che lo aveva guardato carica di compassione.

“Senta signora, qui la situazione è complicata. Il bambino punta i piedi invece che la testa e per il Cesario non siamo attrezzati”.

Povero figlio, aveva pensato nonna Montagna, mettere in mano a un maschio, peraltro tanto giovane, le faccende delle partorienti. Lo diceva lei che a lasciar fare agli uomini si perdeva tempo e fatica. Si era limitata a rispondere che dovevano infilare una mano e girare la creatura e che lei avrebbe dovuto assistere al parto.

Il giovane medico si era grattato la testa e aveva acconsentito.

La nonna lo giurava e lo sacramentava: la prima cosa che di me aveva visto era stato un piede sghembo e tumefatto che veniva fuori dalla vagina di mia madre. Un increscioso ricordo, a ben vedere, ma, da piccola, al mio compleanno, la nonna si prendeva quello stesso piede e me lo baciava mentre raccontava.

“È così che sei sbucata alla luce, prima con i piedi e dopo con la testa. Eri viola, strapazzata e con gli occhi neri e spalancati come quelli di una trota. Ma eri bella e grossa, e come lo guardavi al dottore, come a uno a cui si deve la pellaccia, tanto che lui stesso ti prese e disse: “Mi hai fatto penare, ma porterai fortuna a me e alla tua famiglia…”.

Quello stesso dottore l’ho rivisto anni dopo, da adulta, in un ospedale a Messina. Ero alla mia prima gravidanza e avevo trangugiato un chilo di focaccia messinese con tanta scarola e una dose doppia di pepe nero. Ero finita al pronto soccorso di ginecologia a causa delle fitte insopportabili alla pancia. A nulla erano valsi i tentativi di spiegare che fosse più un’indigestione che una minaccia d’aborto: mi avevano ricoverato per qualche giorno e, in quel frangente, avevo letto il nome sul cartellino del primario ed ero trasalita. 
Era lui lo stesso dottor C.F. che alla fine degli anni ’70 si stava specializzando in un piccolo paese della profonda Calabria e il cui nome era risuonato di bocca in bocca ai miei parenti oramai decimati? 
Era lui. 
Niente di meno rammentava, come in un sogno. Perché quella in cui io ero nata era stata la prima settimana della sua carriera e l’inizio non era sembrato dei migliori.

A pensarci adesso, mi sento una miracolata. Per quell’incontro fortuito che ha chiuso il cerchio di una leggenda oramai consolidata.

A pensarci adesso, mi sento fortunata. Per quel coro di voci miste che mi sussurra all'orecchio dell’anima: Te la ricordi quella giornata? Ah, quante volte te l’abbiamo raccontata.



giovedì 15 aprile 2021

Non sarebbe giustificazione per non farlo più

Dicono che è vero che quando si muore poi non ci si vede più, dicono che è vero che ogni grande amore naufraga la sera davanti alla tv, dicono che è vero che ad ogni speranza corrisponde la stessa quantità di delusione, dicono che è vero, sì, ma anche fosse vero, non sarebbe giustificazione, per non farlo più, per non farlo più, ora.

Dicono che è vero che quando si nasce sta già tutto scritto dentro ad uno schema, dicono che è vero che c'è solo un modo per risolvere un problema, dicono che è vero che ad ogni entusiasmo corrisponde la stessa quantità di frustrazione, dicono che è vero, sì, ma anche fosse vero, non sarebbe giustificazione per non farlo più, per non farlo più, ora.

Non c'è montagna più alta di quella che non scalerò, non c'è scommessa più persa di quella che non giocherò, ora.

Dicono che è vero che ogni sognatore diventerà cinico invecchiando, dicono che è vero che noi siamo fermi ed è il panorama che si sta muovendo, dicono che è vero che per ogni slancio tornerà indietro una mortificazione, dicono che è vero, sì ma anche fosse vero, non sarebbe giustificazione, per non farlo più, per non farlo più, ora.

Non c'è montagna più alta di quella che non scalerò, non c'è scommessa più persa di quella che non giocherò, ora.

#unacanzonepercaso